Il marchionnismo sopravviverà a Marchionne. Dal blog di Angelo D’Orsi

 

La tremenda espressione “a cadavere ancora caldo”, non fotografa la reazione dell’azienda FLC (la Fiat di Sergio Marchionne, associata alla Crysler), davanti alla notizia del giorno. Ossia, prima l’annuncio della rinuncia del manager a proseguire il suo mandato fino alla naturale scadenza, poi quella del suo malessere che lo ha portato in clinica, seguita dall’annuncio di una situazione irreversibile. In effetti, i vertici aziendali, prima di tutto proprietà e management di alto livello, hanno soprattutto provveduto ad archiviare la pratica, ossia a considerare come se fosse morto Sergio Marchionne, colui che, nel bene e nel male, aveva salvato l’azienda, i dividendi degli azionisti, la proprietà, e tutta la baracca. Insomma, morto un papa se ne fa un altro.Le condizioni di Marchionne sarebbero divenute irreversibili poco più tardi. Ed è già divenuto materia per i commentatori, mentre gli analisti finanziari hanno altro a cui pensare: il Capitale non può permettersi smancerie, nostalgismi, e cedimenti emotivi. “Accumulate, accumulate…Questa è la legge, questo dissero i profeti”, sintetizza con il suo sarcasmo tagliente Karl Marx. Il capitalismo è condannato, per così dire, a non mollare mai, deve andare avanti, deve raccogliere denaro per produrre profitto, deve investire denaro per produrre altro profitto e raccogliere altro denaro, anche quando il denaro è virtuale, anche quando si costruiscono gli imperi finanziari sui debiti, incurante di uomini, ambienti, morale.
Da questo punto di vista Marchionne, un autentico self made man, con buoni studi alle spalle, e una formazione non meramente manageriale, ma culturale in senso ampio, è stato l’interprete autentico, idealtipico, del Grande Capitale al tempo della new economy. Incurante di ogni aspetto che non fosse quello di accrescere utili e profitti, ridurre spese, azzerare costi “superflui”, questo abruzzese emigrato in Canada, di stile dimesso e dalla pessima capacità comunicativa, questo uomo concreto fino allo stremo, dirigente moderno che rivendicava, ma con modestia, la propria tenuta da travet più che da manager internazionale, ha portato tra noi, in quella che fu la capitale industriale d’Italia, uno stile nuovo, come si sono affrettati a dichiarare in tanti. La novità consisteva anche in un’attenzione nuova ai lavoratori, a coloro che vivono, soffrono, e non di rado crepano in fabbrica: la novità però non consisteva nella preoccupazione per la loro esistenza, ma piuttosto nello stimolo a produrre di più per guadagnare di più, nella riduzione dei “tempi morti”, anche quando si trattava di dieci minuti per raggiungere le toilette, negli straordinari obbligatori quando il management li decideva, nella rottura della rappresentanza sindacale, e nella riduzione delle tutele. Una vera e propria controrivoluzione in fabbrica, sostenuta, non dimentichiamolo, da tutto il vertice del PD, nazionale e locale, da D’Alema a Veltroni, da Fassino a Chiamparino: i referendum a Pomigliano e a Mirafiori. La rottura della concertazione, addirittura la fuoruscita da Confindustria, per non avere condizionamenti di alcun genere, la pressione dei media amici, sostenuti da politici e amministratori, per far passare nei referendum in fabbrica la linea padronale (solo la Fiom si è battuta fino in fondo senza tentennamenti, in senso contrario, con una onorevole sconfitta)…
Ecco che cosa fu il marchionnismo: la volontà di “mettere al loro posto” i lavoratori in fabbrica. L’impegno sistematico a considerare gli operai – quegli “uomini di carne ed ossa”, di cui con straordinaria empatia parlava Antonio Gramsci – null’altro che appendici delle macchine, pezzi dell’ingranaggio produttivo, rispetto al quale uomini e donne, la loro fatica fisica, la perdita del controllo del proprio tempo, divenuto campo esclusivo del potere e della decisione padronale, nulla valeva, nulla contava. Un “grande balzo” indietro (per richiamare uno slogan maoista, rovesciato), rispetto all’intera storia delle relazioni industriali, dei rapporti capitale/lavoro. La sofferenza, la stanchezza, l’abbrutimento di chi sta in fabbrica erano variabili ininfluenti in questa linea strategica. La megamacchina del Finanzkapitalismus, in cui in verità la produzione era una mera subordinata della ricchezza monetaria, doveva procedere incurante di tutto e di tutti: soprattutto degli esseri umani. Quella megamacchina oggi, ancora prima che fosse cadavere, è passata sul corpo di Sergio Marchionne.

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