Queste notizie sono tratte da: Delfina Tromboni, Vite schedate. Comunisti a Ferrara durante il fascismo, Vol.1°, Casa editrice Tresogni, Ferrara 2012 e ANPI di Poggio Renatico, La Resistenza poggese 1943-45, snt, sd [1983], che contiene un mio contributo sull’ antifascismo nel territorio poggese.
Oggi cominciamo ad occuparci di alcuni dei rappresentanti ferraresi al Congresso di Livorno. Per i “comunisti puri” i presenti furono almeno 4. Di tre conosciamo i nomi: Carletto De Giuli, impiegato comunale per Bondeno; Rino Bertelli, dipendente delle Ferrovie dello Stato per Portomaggiore, Monselice e Legnago; Arturo Vignocchi, infermiere per Poggio Renatico. Il quarto probabilmente rappresentò i voti comunisti puri di Codifiume e per qualche tempo si pensò si trattasse del giovane Luigi Amadesi, il futuro segretario di Palmiro Togliatti, il quale però in un suo libro di memorie lo esclude.Dei quattro, Arturo Vignocchi appare come la personalità all’epoca più influente. Nato a Poggio Renatico nel 1887, lavorava come infermiere al manicomio provinciale di Bologna ed era sposato con Erminia Borgatti detta Armida – così si legge in un rapporto della Polizia politica fascista che la riguarda – la quale condivise il suo operato in clandestinità e tenne i contatti con il resto del partito quando Vignocchi fu costretto ad emigrare clandestinamente a Milano e poi a riparare in Francia come esule politico. Tornato dal Congresso di Livorno, Arturo presiedette la riunione fondativa della Federazione provinciale ferrarese del PCdI che si tenne presso la trattoria “Ai voltini” nel Borgo di San Luca il 6 febbraio. Fu candidato alle successive elezioni politiche insieme a Francesco Boldi di Portomaggiore, maestro di musica e primo segretario provinciale del PCdI. Nel 1922 fu nominato nel Comitato Centrale del Partito. Nel 1926 viene inserito nel “Bollettino delle ricerche” che il Ministero dell’Interno utilizzava per segnalare i “sovversivi” da fermare o arrestare. Di lì è tratta la fotografia che gli fu scattata nel 1923 dalla Questura di Bologna per il casellario politico locale, che pubblichiamo a seguire. A Milano, dove si rifugiò per sfuggire alle persecuzioni e alle violenze fasciste, fu arrestato nel 1927 nel corso di una riunione di quella Federazione comunista e deferito al Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato – istituito dal regime con le leggi speciali o “fascistissime” nel 1926 – che lo condannò a 14 anni di reclusione e 3 di vigilanza speciale. Uscito di prigione, nel 1938 è di nuovo processato per “azione illegale” nei sindacati fascisti e negli ambienti universitari bolognesi. Latitante, fu stralciato.

Tratte da: Delfina Tromboni, A noi la libertà non fa paura: La Lega provinciale delle cooperative dalle origini alla ricostruzione (1903-1945), Il Mulino, Bologna,2005Paola Oliva Bertelli [figlia di Rino], Praga Radio Clandestina, Terre di Mezzo Editore, Milano, 2008A seguire, la foto segnaletica di Rino Bertelli scattata nel 1926 e inserita nel Casellario politico della Questura di Bologna.
Continuando il nostro racconto sui delegati ferraresi al Congresso di Livorno, oggi ci occupiamo di Carlo De Giuli e di Rino Bertelli.Carlo De Giuli detto Carletto, nasce nel 1880 a Bondeno, dove risiede nel 1921, quando viene inviato a Livorno per rappresentare la corrente dei “comunisti puri”. Di lui non abbiamo purtroppo fotografie. Usciere comunale, era stato segnalato fin dal 1912 dal Ministero dell’Interno al Prefetto di Ferrara come ”anarchico” perché il suo nome risultava in un elenco di sottoscrizioni inviate da Bondeno alla stampa anarchica, in particolare al periodico “L’Agitatore”. Tornato da Livorno la notte del 23 gennaio, dopo aver partecipato, due giorni prima, nel Teatro San Marco alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, chiede la convocazione della sezione socialista di Bondeno per riferire sugli esiti del Congresso, riunione che viene fissata per la sera del 29 gennaio. La discussione si prolungò oltre la mezzanotte e fu riconvocata nella sala del Consiglio comunale per la mattinata del 30. L’amministrazione era retta dai socialisti e all’epoca la questione della separazione tra partito e istituzioni non era considerata rilevante. A livello di sezione i “comunisti puri” si trovarono in minoranza, quindi abbandonarono la sala e si ritrovarono nei locali della Camera del Lavoro, costituendosi in sezione comunista, con Segretario Luigi Bagnolati, all’epoca bracciante e capolega. La permanenza di De Giuli nel Bondenese divenne ben presto impossibile a causa delle persecuzioni fasciste che lo costrinsero a fuggire. Si rifugia dunque nel Trentino, dove, a Brentonico, lo ritroviamo <<negoziante di tessuti>>, un mestiere che già aveva sperimentato negli anni precedenti l’avvento del fascismo. Qui morirà nel 1932.Le notizie su di lui sono tratte da: Luigi BAGNOLATI, Origini della Federazione comunista ferrarese. Memorie e documenti, Modena, Franco Levi, 1976 e Delfina TROMBONI, La falce, il martello e le spighe. Donne e uomini del Partito comunista nella <<roccaforte fascista d’Italia>>, in: Delfina TROMBONI (a cura), Vite schedate. Comunisti a Ferrara durante il fascismo, vol. I, Ferrara, Tresogni, 2012 .L’ultimo dei delegati ferraresi appartenenti alla corrente dei “comunisti puri” al Congresso di Livorno è Rino Bertelli, di Portomaggiore (FE), dove è nato nel 1892. All’epoca lavora alle dipendenze delle Ferrovie dello Stato ed è iscritto fin da giovanissimo al PSI, dove inizialmente appartiene alla corrente socialista rivoluzionaria. Nel 1915 fu accusato di “indebito abbandono del posto di lavoro” per aver partecipato ad uno sciopero contro la guerra, poi prosciolto dal Tribunale di Ferrara per amnistia. Gestore della Stazione ferroviaria di Portomaggiore, “in una riunione segreta tenuta dai capi sovversivi del luogo – recita il Cenno biografico redatto nel 1927 dalla prefettura di Bologna – in imminenza dello sciopero internazionale” dei ferrovieri del 1919 aveva sostenuto “la necessità di compire nell’occasione dimostrazioni violente”. Implicato nella “responsabilità morale dell’omicidio del fascista Rino Moretti, avvenuta il 28 marzo 1921 a Portomaggiore”, verrà arrestato nel novembre di quell’anno e processato. Verrà poi prosciolto e scarcerato nel maggio 1922. Qualche giorno dopo l’uccisione di Moretti “camions di squadristi e carabinieri” erano calati su Portomaggiore “invadendo e devastando case, appiccando fuoco alle suppellettili e agli edifici”, tra cui le abitazioni di Rino Bertelli e del maestro di musica Francesco Boldi, che già abbiamo conosciuto come primo segretario provinciale del PCdI. L’anno dopo gli squadristi bruciarono i due negozi e la villetta del padre Carlo a Portomaggiore, mentre Rino – riuscito sempre assolto da ogni accusa – fu trasferito alla stazione di Nervi (GE), dove continuerà a svolgere attività comunista, organizzando scioperi ferroviari. Nel 1924 viene esonerato dal servizio ufficialmente “per scarso rendimento”, secondo la formula usata allora per epurare il personale delle FFSS dai dipendenti politicamente indesiderabili. Prova ne sia che dopo la Liberazione il Ministero competente lo reintegrerà nelle Ferrovie e gli verrà ricostruita la carriera fin dal momento dell’espulsione. Nel frattempo, nel 1925 si trasferisce a Bologna, dove vive la sua famiglia. Viene più volte fermato alla vigilia di ogni ricorrenza del regime ed a maggior ragione in occasione del 1° maggio, festa del lavoro che i fascisti avevano soppresso sostituendola con i “natali di Roma”. Il 19 novembre 1926 fu proposto per la prima volta per l’assegnazione al confino, risoltasi in un non luogo a procedere e conseguentemente sottoposto a diffida e ad “un’attenta e assidua sorveglianza”. L’anno successivo si trasferisce a Roma dove trova lavoro come insegnante di educazione fisica in una scuola elementare. Conoscitore di più strumenti musicali, aveva scritto i libretti di due opere musicate entrambe dal suo amico e compagno Francesco Boldi. Nel 1930 la questura di Roma segnalando che “non dà luogo a rilievi sulla sua condotta morale e politica” e che avrebbe “dato prove non dubbie di ravvedimento”, lo propone per la radiazione dal Casellario politico. Bertelli continuò però a mantenere i contatti con alcuni militanti comunisti e quando, con l’avvento della guerra, i legami gioco forza si interruppero, collaborò con un gruppo del Partito d’Azione, attraverso Giorgio Giorgi, uno dei trucidati dai nazifascisti alle Fosse Ardeatine. Dopo la Liberazione si iscrisse alla sezione Esquilino-Celio-Macao del Partito comunista italiano di Roma.

Tratte dalle memorie di Ilio Bosi, Il bastone e la galera. Vita di un giovane italiano durante il ventennio, Gabriele Corbo Editore, Ferrara, 1995 e da Delfina Tromboni, Vite schedate. Comunisti a Ferrara durante il fascismo, vol.2°, Casa editrice Tresogni, Ferrara, 2013.
Tra i “comunisti unitari” ferraresi spicca certamente la personalità di Ilio Bosi. Lo inserisco a questo punto del mio sintetico racconto, anche se non fu delegato al Congresso di Livorno, perché di fatto sarà l’artefice principale della confluenza dei “terzini” ferraresi nel neonato PCdI fin dalla fine del 1922. Dovrò spezzare in due puntate questo racconto, perché la storia di Ilio richiede tempo e spazio ed è esemplare per comprendere come vissero durante il regime quanti trovarono la forza ed il coraggio di opporsi. Bosi racconta molto bene nel suo libro di memorie di come entrasse nel PSI su posizioni massimaliste per contrastare la sostanziale inazione dei riformisti, per convincersi poi che la scelta migliore per la sua sensibilità e per il Paese fosse potenziare il partito uscito dalla scissione del 1921. Fermato per la prima volta nel 1917 mentre diffondeva volantini contro la guerra, Bosi – che all’epoca era studente di Ragioneria – si iscriverà alla Federazione giovanile socialista nel 1920 e di fronte alla scarsissima attività svolta dal circolo “Luigi Telloli” del borgo di San Giorgio in cui militava e di cui divenne ben presto responsabile amministrativo, decise che l’azione politica andava intensificata, anche contro il parere degli adulti, per dimostrare che Ferrara non poteva facilmente cadere nelle mani del fascismo. Organizzò a questo scopo diverse azioni dimostrative, tra cui una sfilata per le strade cittadine con la bandiera rossa del circolo, a cui i fascisti risposero sparando alcuni colpi di pistola dalle finestre del Circolo Commercianti di Corso Giovecca, “detentore – scrive nelle sue memorie – di una delle più forti correnti antioperaie”. Ai fascisti diedero man forte i carabinieri che nei pressi di Castello Estense indirizzarono al gruppo di giovani socialisti una scarica di moschetti. Raccolta la bandiera, caduta nel fuggi fuggi che seguì, Ilio comprese che era indispensabile “tenere la strada”, cosa che fece, insieme ai suoi giovani compagni, per diversi mesi. Quando, durante un’altra di queste sortite, sentì un fascista commentare “sono comunisti”, capì che soltanto da quella parte ci si poteva aspettare una reazione attiva allo squadrismo incombente e cominciò il suo processo di avvicinamento a quanti, nel Ferrarese, avevano da poco fondato il PCdI. Nel 1922, quando il dirigente dei giovani comunisti, Otello Putinati capì di essere stato individuato dai fascisti, fu Bosi a nascondere e a conservare per lui i timbri del Partito. Nel 1923 si iscrisse alla Federazione Giovanile Comunista (FGCdI) nel cui Comitato centrale venne subito inserito. Mandato in missione in diverse località del Paese, nel 1924 finì per essere arrestato, in Abbruzzo. Riuscì però a fornire false generalità e a farsi rilasciare. L’arresto vero e proprio arrivò nel 1925 quando, individuato a Foggia, gli trovarono in valigia centinaia di esemplari de “La Caserma Giornale del proletariato armato” e 1200 esemplari de “La recluta”, incitanti alla “rivoluzione operaia e contadina”.

Tratte dalle memorie di Ilio Bosi, Il bastone e la galera. Vita di un giovane italiano durante il ventennio, Gabriele Corbo Editore, Ferrara, 1995 e da Delfina Tromboni, Vite schedate. Comunisti a Ferrara durante il fascismo, vol.2°, Casa editrice Tresogni, Ferrara, 2013.
Veramente gustosa la descrizione delle disavventure pugliesi nelle memorie di Ilio Bosi, inserito, dopo essere stato picchiato duramente da una “decina di malnutriti”, nel “camerone di transito” della prigione di Lucera, “in mezzo ad ergastolani e condannati per tutti gli articoli del codice penale” che guardavano “con meraviglia e sospetto il politico”. Liberato, torna a Ferrara dove viene “invitato” nella sede del fascio e lì bastonato da una squadraccia fascista capitanata dal noto Alberto Montanari. Ricoverato in ospedale (il Sant’Anna all’epoca si trovava nell’omonima Piazzetta), dopo tre giorni gli si presentò il comunista Leandro Bortolazzi detto “Pèvar” che lo fece fortunosamente scappare e lo accompagnò ad una automobile che lo condusse a Milano.Qui lavora in stretto collegamento con Antonio Gramsci, che già ha indirizzato la FGCdI a organizzare i giovani operai delle fabbriche e riprende la sua tessitura politica per l’unità tra comunisti e ciò che resta del vecchio PSI. Nel 1926 è Segretario interregionale della FGCdI per la Sicilia, la Calabria e la Basilicata e viene arrestato a Catania, dove viveva sotto il falso nome di Bruno Cappa, viaggiatore di commercio di macchine per cucire, per cospirazione contro lo Stato. A Catania «in modo speciale – si legge nel dispositivo della sentenza – era ben sviluppato il movimento per il Fronte Unico Proletario, a base di riorganizzazione sindacale comunista, di difesa degli interessi dei giovani, di lotta contro la guerra, contro il fascismo ed il regime, e l’invio di una delegazione di operai in Russia, ecc. […] In sostanza era riuscito ad amalgamare bene tutti i comunisti della sua zona». Essendo ormai in vigore le Leggi speciali, viene quindi deferito al Tribunale speciale, che diventa operativo dal 1927 e in attesa del processo resta in carcere, a Roma, nel penitenziario di “Regina Coeli”, fino alla sentenza che nel marzo 1928 ne sancirà la condanna a 10 anni di reclusione. Inviato nel penitenziario di Portolongone, passa venti mesi in isolamento, con l’unica “compagnia” dei libri della biblioteca del carcere e di quelli che gli inviano da casa. Nel 1932 viene trasferito nel carcere di Spoleto e da qui, grazie alla sorella [in realtà nipote] Teresa Bosi riesce a instaurare rapporti con alcuni centri svizzeri del partito. Ben presto trasferito a Civitavecchia, trova in quel penitenziario altri dirigenti nazionali: Umberto Terracini, Emilio Sereni, Gian Carlo Pajetta, Arturo Colombi, Vincenzo Moscatelli. Alla fine dell’anno poté usufruire di due condoni concessi dal regime nel decennale dell’avvento del fascismo e fu scarcerato nel novembre 1932. Tornato a Ferrara, riprende immediatamente i contatti con Otello Putinati e insieme a lui mette in piedi la Direzione della Federazione provinciale ferrarese del PCd’I, intrecciando rapporti con i nuclei di comunisti sopravvissuti, sia in provincia che nei territori confinanti. La partecipazione all’organizzazione dello sciopero di Stienta (RO) per un nuovo patto di compartecipazione mette la polizia di nuovo sulle sue tracce e Bosi viene ancora arrestato nel settembre 1933, deferito al Tribunale speciale e condannato a 16 anni di reclusione, che sconterà ininterrottamente nel carcere di Civitavecchia fino al 1941. Qui conosce la cosiddetta “Università del carcere”, fatta di lezioni di varia natura tenute dai compagni più preparati. Può in particolare avvalersi degli insegnamenti di Emilio Sereni e Antonio Pesenti, di cui farà tesoro quando diventerà, nel dopoguerra, dirigente nazionale del sindacato dei lavoratori della terra. Nel 1941 un condono lo libera dopo 13 anni di reclusione. Tornato a Ferrara, si mette in contatto con un compagno che gestisce un negozio di biciclette in via Ragno, detto “La Fogna”, e successivamente incontra i dirigenti socialisti Alda Costa e Mario Cavallari, con i quali, alla fine del 1942, partecipa ad una riunione nello studio dell’Avv. Ugo Teglio, di orientamento azionista, in cui espone le teorie del Partito comunista sulla necessità dell’unità antifascista tra tutte le forze democratiche. Nei primi mesi del 1943, seguendo le indicazioni del partito, comincia ad occuparsi di organizzazione della lotta armata e del reperimento delle armi necessarie allo scopo (la stessa Alda Costa contribuirà in denaro a questo fine), finché nel maggio Antonio Roasio, inviato dal Centro del Partito, lo porta con sé a Milano, dove diventa segretario della Federazione clandestina del PCd’I ed ha l’incarico di riallacciare i contatti con i gruppi di comunisti dell’intera regione Lombardia. Alla caduta del fascismo, organizza immediatamente nel capoluogo lombardo diffusione di manifestini e manifestazioni e nel pomeriggio parla agli operai della Brown Boveri. Dopo l’8 settembre, passa in Piemonte e in Liguria come Ispettore politico e, dal giugno 1944, a Genova, con l’incarico di Ispettore politico e militare. Lavora agli scioperi operai dell’Ansaldo e all’organizzazione sindacale dei portuali di Sampierdarena e di Sestri. Dal febbraio 1945 lavora alla preparazione dell’insurrezione in Liguria, ma nel marzo viene richiamato a Milano: Eugenio Curiel, dirigente dei giovani comunisti, è stato trucidato dai fascisti e Bosi è chiamato a prendere il suo posto. A Liberazione avvenuta, sfilerà quindi a Milano, con i membri del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), a rappresentare il quale andrà, nei primi giorni di maggio, in delegazione a Roma presso il Governo Bonomi, per chiedere il riconoscimento delle funzioni politiche dei CLN. Tornato a Ferrara, diverrà Segretario provinciale della Federazione finalmente legale. il 2 giugno 1946 è eletto nella Assemblea Costituente; dal settembre 1946 è nella Segreteria nazionale della Confederterra. Nella Costituente, membro della Commissione agraria, pronuncerà il primo discorso sulla politica agraria del partito e darà un importante contributo a definire i diritti ed i limiti della proprietà privata. Eletto Senatore, sarà Vice Presidente della Commissione agraria del Senato e, fino al 1960, Segretario della Federazione sindacale mondiale. Nella sua Ferrara sarà poi Assessore provinciale e Presidente della Commissione di garanzia del PCI.
