Israele spara sulla marcia palestinese. 15 morti. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti.
Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. Gli ospedali già in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al torace. «I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci diceva Aziz Kahlout, un giornalista.
Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di tiratori scelti.
Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato lanci di pietre e di molotov, ha parlato di «manifestazioni di massa volte a coprire attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima di essere uccisi da una cannonata.
La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla marcia e che si unirà alle prossime proteste «perché la vita è difficile a Gaza e non abbiamo nulla da perdere». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta «porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza».
Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.

È Yom al Ard. Il “Giorno della terra”, la “Grande marcia del ritorno”.
Sui calendari palestinesi – in West Bank, Gaza, su quelli degli arabi in Israele – la data è cerchiata di rosso. Le proteste termineranno solo tra sei settimane. Migliaia di persone sono al confine israeliano con le loro tende, tra loro donne e bambini. Dall’altro lato della recinzione, cento cecchini dell’esercito israeliano, schierati con il cordone di sicurezza dei militari.
Era il 30 marzo 1976. Israele ordinò la confisca della terra che apparteneva ai cittadini palestinesi: duemila ettari di terreni vennero requisiti e ribellioni divamparono da Deir Hanna a Arrabeh, Galilea; sei arabi furono uccisi dalle forze di sicurezza, a decine rimasero feriti.
Palestina, don’t go. Non avvicinarti. Gli israeliani le chiamano “no-go zone”, sono i punti sensibili adiacenti al border conteso. Gadi Eizenkot, capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano, aveva detto che i militari «non permetteranno infiltrazioni di massa, o saranno tollerati i danneggiamenti della barriera al confine. Se ci sono vite a rischio, i soldati hanno il permesso di aprire il fuoco».
Il ministro della difesa Avigdor Lieberman, sempre secondo l’Ansa, ha avvisato in arabo, sul suo profilo Twitter, che «ogni palestinese che da Gaza si avvicina alla barriera di sicurezza con Israele metterà la propria vita a rischio». L’avviso si riferisce alla situazione di tensione in corso alla frontiera con Gaza.
Nei giorni precedenti alla Grande marcia era scattato l’allarme tra le organizzazioni che tutelano i diritti umani. «Le autorità dovrebbero astenersi dall’usare forza letale contro i manifestanti. I report dell’esercito israeliano che minacciano di aprire il fuoco contro chiunque provi a varcare il confine sono incredibilmente allarmanti. Per la legge internazionale le armi da fuoco possono essere usate solo per proteggersi da minaccia imminente di morte» ha detto Philip Luther, divisione Amnesty Medio Oriente e Nord Africa. «L’esercito può ricorrere alla forza solo per scopi legittimi, la forza letale non può essere usata contro manifestanti pacifici».
Dal 30 marzo al 15 maggio. Sono già pianificate le manifestazioni di piazza del prossimo 14 maggio, quando verrà inaugurata la nuova ambasciata Usa nella città divisa, Gerusalemme. L’apertura della sede diplomatica coinciderà con il 70esimo anniversario della fondazione dello Stato d’Israele, avvenuta il 14 maggio 1948. Il giorno dopo, terminerà la primavera della battaglia palestinese. Il 15 maggio infatti è il “Giorno della Catastrofe”, della Naqba, dichiarato dai palestinesi dopo la grande cacciata, quando in 700mila furono espulsi per sempre da case, villaggi, città. Era lo stesso anno: 1948, stessa terra contesa oggi, 2018.
Leggo questo articolo e piango. Non riesco a capire come un popolo che ha tanto sofferto ,possa a sua volta diventare tanto crudelle e ingiusto. Il mondo dovrebbe alzare la sua voce in difesa dei palestinesi. Non si può restare immobili di fronte a tanta ingiustizia, ferocia. Che Dio maledica Israele, assassino di donne e bambini! Ladri di territori!!!
"Mi piace"Piace a 1 persona