Si può tollerare quello che sta accadendo al confine della Striscia di Gaza?
di Angelo D’Orsi
Si può tollerare quello che sta accadendo al confine della Striscia di Gaza? Si può tollerare che uno degli eserciti più potenti del mondo compia, indisturbato, un terribile massacro di gente inerme o armata forse di fionde e copertoni incendiati? Si può tollerare che un popolo, quello palestinese, privato della terra, dei beni, della memoria, della libertà, venga non solo schiacciato e oppresso, ma sterminato?
Si può tollerare che i resistenti palestinesi che vogliono ritornare sulle terre a loro sottratte con la violenza e l’inganno, vengano bollati come “terroristi” e schiacciati come scarafaggi? Si può tollerare che Israele violi ogni legge internazionale, che usi armi proibite agli altri Stati, che sfrutti l’Olocausto per legittimare il lento sterminio di un altro popolo? Si può tollerare che chi denuncia tutto questo venga chiamato “antisemita” e minacciato di sanzioni anche penali, in tutta Europa?
Si può tollerare il silenzio della “comunità internazionale”, che oggi 14 maggio davanti all’ultima ondata di morti e feriti e mutilati, è diventato, infine, un timoroso belato di pseudo-protesta? Si può tollerare che i governanti di Israele, sostenuti dall’Amministrazione Usa, in un sfacciato gioco delle parti tra Netanhyau e Trump, sfidino il resto del mondo?
Si può tollerare tutto questo carico di infamia, d’ingiustizia, di prepotenza contro il popolo oggi martire per antonomasia, quello palestinese? Quanti morti, quanti mutilati, quanti derubati dei loro beni e delle loro case, quanti internati in campi di concentramento dobbiamo ancora accettare, tra i palestinesi, quanti ulivi sradicati, quante case rase al suolo dai caterpillar, per dar vita a una azione internazionale, di popoli e di nazioni, contro Israele? Un’azione che non dovrebbe “rinunciare a nessuna opzione”, come amano dire i governanti israeliani, quando enunciano il proprio diritto/dovere di “difendere Israele”, in tutto il mondo. E il mondo, che fa? Fino a quando continueremo a subire il ricatto ebraico? Fino a quando accetteremo da Israele ciò che a nessun altro Stato (tranne gli Usa, che sono il patron di Israele, come è noto) viene concesso?
Al Nakba, documentario (200 min)-prodotto da Al-Jazeera in arabo per la prima volta in onda nel 60 ° anniversario della catastrofe palestinese. E ‘stato tradotto in Português nel 2009 e poi in quattro lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo e italiano. Al Nakba ha vinto il premio per il miglior documentario di Al Jazeera in Palestina Fifth International Film Festival (Doha / Qatar) e il premio del pubblico a Amal Nona euro-araba Film Festival (Santiago / Spagna). Ha partecipato in altri festival in Brasile, Argentina, Italia, Giordania, Egitto e Palestina.
15 maggio 2018 – 61 morti a Gaza, un massacro mentre i vertici statunitensi e israeliani festeggiavano l’inaugurazione della nuova sede dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. E oggi i palestinesi commemorano i 70 anni dalla catastrofe
http://nena-news.it/nakba-nei-campi-profughi-in-libano-benvenuto-in-palestina/
La commemorazione tra i rifugiati palestinesi nel Paese dei Cedri: “La prima generazione di rifugiati sta scomparendo, per questo abbiamo una responsabilità ancora maggiore di raccontare ai più giovani la Nakba e di non fargli dimenticare la nostra cultura”
Testo di Giovanni D’Ambrosio, foto di Raffaello Rossini
Beirut, 15 maggio 2018, Nena News – “Benvenuto in Palestina”, mi dice Kamal mentre mi fa strada tra il labirinto di minuscole vie, spesso così strette da lasciar passare solo una persona alla volta, che compongono il centro del campo di Chatila. “Per noi tutto questo”, indicando con un gesto delle mani gli alti edifici che ci circondano, “è come essere in Palestina, una Palestina temporanea”. In effetti, superato il posto di blocco dell’esercito fisso nelle vicinanze del campo, ovunque si posi lo sguardo si incontrano simboli che rimandano alla Palestina.
Il murales di un giovane Arafat sorridente sembra salutarci mentre ci avviciniamo all’entrata del campo. Bandiere palestinesi sono sparse un po’ ovunque, sui tetti degli edifici o sui balconi, insieme a quelle gialle di Fatah e a quelle rosse del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Il campo si estende su circa un chilometro quadrato ed è rimasto tale dall’anno della sua fondazione nel 1949. Allora gli abitanti non erano più di 4mila e molti ricordano i decenni passati richiamandosi curiosamente all’altezza degli edifici. Spesso mi è capitato di ascoltare, “dovevano essere gli anni ’60, quando Chatila era ancora alta due piani”.Oggi di persone ce ne sono tra le 20 e le 30mila, di cui circa la metà sono palestinesi e gli edifici sono talmente alti e ravvicinati da non permettere alla luce del sole di raggiungere il suolo. Siamo alla vigilia dell’anniversario della Nakba, la “catastrofe”, ovvero l’istituzione dello Stato d’Israele e l’occupazione della Palestina storica. La guerra del 1948 e le azioni delle milizie sioniste hanno causato l’esodo e l’espulsione di più di 700mila palestinesi nei paesi circostanti. Convinti di poter tornare nelle loro terre finita la guerra, da settant’anni i rifugiati palestinesi e i loro discendenti, divenuti col tempo circa cinque milioni, lottano generazione dopo generazione per vedere riconosciuto il loro diritto al ritorno stabilito anche dal diritto internazionale (e ribadito a varie riprese) dall’articolo 11 della risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata l’11 dicembre 1948.
Jamila fa parte della seconda generazione di rifugiati, ovvero la prima ad essere nata e cresciuta in un campo rifugiati in Libano. È la direttrice del centro di Chatila di Beit Atfal Assumoud, un’associazione palestinese nata nel 1976 in seguito al massacro del campo di Tel al-Zaatar per opera dei falangisti, partito cristiano di estrema destra famoso in seguito per il massacro di Sabra e Chatila del 1982, con lo scopo di dare soccorso ai bambini palestinesi rimasti orfani.
Oggi l’associazione si è estesa e lavora in tutti i campi del Libano, una decina, e ha diversificato le sue attività incentrandole sul sostegno alle famiglie e sull’educazione.Alla domanda che le pongo sul significato di questo giorno a settant’anni dalla Nakba mi risponde: “Se tu chiedi a un bambino dell’asilo – dice indicandomi i piani superiori – da dove viene, lui ti risponderà che è palestinese, non libanese, e ti dirà anche il villaggio d’origine della sua famiglia. Noi viviamo qui con i nostri corpi, ma le nostre menti sono ancora nella nostra terra. Io, per esempio, sono di Yajur. Un piccolo villaggio nel nord della Palestina, vicino a Haifa, accanto a una montagna che si chiama Karmel, verde tutte le stagioni dell’anno. In primavera il villaggio è invaso dal profumo dei fiori e il mare dista solo quindici minuti a piedi. Il fiume Muqatta porta acqua fresca e dolce al villaggio; non come qui”, riferendosi alle condizioni di vita insalubri del campo,“che l’acqua è salata e non esistono spazi verdi. Per questo è difficile dimenticare, capisci? Sono giorni difficili ma dobbiamo continuare a mantenere viva la speranza che un giorno torneremo nella nostra terra”.
In tutto il Libano associazioni palestinesi e solidali si sono mobilitate con varie attività per l’anniversario della Nakba e per riportare l’attenzione della comunità libanese e internazionale sulla mancanza di giustizia sociale e di diritti civili dei rifugiati residenti nel paese. È proprio lo scopo, ad esempio, di una passeggiata in bicicletta organizzata da Heartbeats to Palestine e appoggiata dalla campagna BDS che, attraversando il Libano da nord a sud nel fine settimana dell’11 e 12 maggio, ha percorso 200 chilometri fino a raggiungere il confine israeliano, in aperta polemica con il Giro d’Italia fatto partire da Israele.
I palestinesi in Libano vivono in uno stato di estrema marginalizzazione. Come mi racconta Kassem Aine, direttore generale di Beit Atfal Assumoud, “i palestinesi pagano le contraddizioni e le divisioni confessionali interne della società libanese. Non abbiamo la cittadinanza, poiché avercela significherebbe cambiare gli equilibri religiosi del paeseincidendo sul sistema politico confessionale presente, né abbiamo alcun tipo di riconoscimento politico e la maggior parte di noi è soggetta a costanti discriminazioni. Al di fuori dei campi sono più di una trentina i lavori che non possiamo praticare, come fare il medico, l’ingegnere, o addirittura il tassista. Per poter lavorare al di fuori dei campi serve un permesso che è molto difficile da ottenere, per cui tanti palestinesi rinunciano a farne domanda. Non ci è inoltre possibile passare le nostre proprietà legalmente acquistate in eredità ai nostri famigliari. La stessa terra dov’è costruito il campo di Chatila non ci appartiene ma è affittato dall’UNRWA e l’affitto scadrà tra una ventina d’anni”.
“Noi non vogliamo la nazionalità”, mi ripetono alcuni collaboratori dell’associazione, “noi vogliamo diritti. In Libano ci lasciano vivere, o sopravvivere, e nessuno ci obbliga ad andarcene. Ma questa non è casa nostra, non abbiamo bisogno del passaporto, abbiamo bisogno di lavoro e di poter vivere in pace”.
Mentre mi risuonano in mente i versi finali di una poesia di Mahmoud Darwish, […]Tutti i cuori degli uomini sono la mia nazione, ritiratemi pure questo passaporto; in tutti i campi palestinesi le persone si preparano alle manifestazioni che domani mattina, 15 maggio, avranno luogo nei vari campi per poi muoversi nel pomeriggio verso il confine israeliano e ricordare così a loro stessi e agli altri che dopo settant’anni dalla “catastrofe”, il popolo palestinese è ancora pronto a lottare per il riconoscimento del proprio diritto a esistere. Nena News
No non si può tollerare oltre! Mi chiedo cosa stia aspettando il mondo per dire basta a questa mattanza. Si inorridisce al pensiero, ricordo della shoah. E nessuno fa niente per fermare questa distruzione di un popolo a cielo aperto… E’ profondamente ingiusto e sbagliato. Israele pagherà per questo.
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