Brindisi per la nascita del Partito

Umberto-Terracini-e-Lina-Merlindi Umberto Terracini

Noi, comunisti, ci riunivamo in un angolo un po’ buio del ristorante “Al Giappone”; e poiché eravamo i più astemi, venivamo considerati dai camerieri come degli intrusi. Bevevamo dell’acqua, con quel freddo di gennaio! Ma anche del caffè per tenerci su, stanchi morti delle battaglie verbali del giorno e delle nottate spese a mettere in sesto le scalette dei nostri interventi, i progetti delle risoluzioni e le corrispondenze per l’”Ordine Nuovo”. Non sarebbe di sicuro venuto a mente a noi la sera del 21 GENNAIO, dopo una giornata densa di emozioni, che aveva visto dapprima la nostra uscita tumultuosa dal Teatro Goldoni e poi la riunione pervasa di un fervore quasi religioso sotto il tetto diroccato del Teatro S. Marco, di affidare ad un brindisi la consacrazione dell’avvenimento destinato a tanti grandiosi sviluppi: la nascita del nuovo partito della classe lavoratrice italiana. Né ho mai saputo chi né ebbe l’idea. Fatto si è che verso le 22, mentre appena mi ero ritirato nella camera che mi ospitava, sentii un delicato bussare alla porta. Era un ragazzetto che in quei giorni aveva lavorato instancabilmente per noi. Doveva accompagnarmi in un posto dove mi si attendeva.

Chi mi attendeva? Per che cosa? Non lo sapeva, ma dovevo andare con lui. Pioveva, e per le vie buie e fradice camminammo un pezzo, rasente i muri, per non bagnarci e anche per prudenza. Dal mattino erano calati a Livorno gli squadristi di Maremma, per dare qualche lezione a “quei vigliacchi dei comunisti”. Il mio accompagnatore si fermò dinanzi ad una piccola casa e bussò. Entrammo. Era un laboratorietto artigiano di falegnameria, ingombro di assi piallate, di mobili in lavorazione e di trucioli. Un lume a petrolio allungava le ombre degli oggetti sulle pareti, dove oscillavano goffamente ogni qual volta, aprendosi l’uscio, entrava una folata di vento. Dopo il mio arrivo le ombre oscillarono ancora quattro volte sulle pareti. La prima volta entrò Grieco, la seconda Gramsci, la terza Bordiga, e l’ultima Gennari. Allora mi accorsi di qualcuno che, al riparo di certi grandi tavoloni, stava attendendo. Era Christo Kabacev, il compagno bulgaro che in rappresentanza dell’Internazionale Comunista aveva parlato al congresso socialista per confrontarlo a giuste decisioni, e che ora voleva esprimerci la solidarietà fraterna con cui tutti i partiti rivoluzionari del mondo si stringevano attorno al nostro gruppo, assurto a rappresentante del pensiero e della fede rivoluzionaria nello sconvolto campo del movimento operaio italiano. C’erano su uno sgabello una bottiglia e quattro bicchieri. Il padrone del laboratorio, un buon compagno che, ospitando Kabacev, aveva sfidato i rigori della polizia e i furori dei fascisti, mescé il vino bianco scusandosi per la insufficienza dei bicchieri. Kabacev levò il suo e illuminando lo scarno viso severo di un sorriso dolcissimo: “VIVA IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO” disse; poi riprendendosi: “VIVA IL GRANDE PARTITO COMUNISTA ITALIANO”. Mi guardai attorno. Grande? Sì, la nostra passione era grande; la nostra certezza era grande; la nostra volontà, la nostra decisione, la nostra fiducia erano grandi. Ma nella sala in rovina del teatro San Marco il gruppo dei delegati della frazione comunista aveva potuto raccogliersi tutto su pochi metri quadrati di pavimento, dove non giungeva la pioggia diritta dal cielo attraverso alle larghe spaccature del tetto. Ma lì, in quel piccolo laboratorio artigiano, noi ci contavamo: cinque eravamo. “VIVA IL GRANDE PARTITO COMUNISTA ITALIANO! Esso farà lunga strada e realizzerà il suo grande compito. Esso darà ai lavoratori italiani la società nuova, la società socialista!”

 

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