Volti di donne nella Resistenza ferrarese: Partigiane 9. e Partigiane 10.

continua la Mostra di Delfina Tromboni

Il sessismo.

Infinite sono le storie delle donne della Resistenza che dovettero scontrarsi con il sessismo imperante nella società in cui vivevano. Spesso, come abbiamo detto nel precedente post, esso si sposò con le differenze di classe e vide le partigiane contrapposte anche per questo ai padroni fascisti e ai tedeschi occupanti. In altre occasioni, per esempio durante la carcerazione, erano i “guardiani” fascisti ad impersonare un sessismo che si trasformava in tortura ed arrivava sulla soglia dello stupro. In altre occasioni ancora, esso imperava anche tra le donne. Scegliamo, per parlarne qui, la testimonianza di Matilde Bassani, ferrarese, all’epoca studentessa universitaria a Padova. Antifascista per tradizione famigliare, il padre, insegnante all’Istituto Tecnico, fu licenziato per il suo antifascismo nel 1924 e costretto a lavori precari. La famiglia si rifugiò in Piemonte, a Ceva e poi ad Asti, facendo ritorno a Ferrara cinque anni dopo. Allieva di Francesco Viviani e Concetto Marchesi, cugina di Eugenio Curiel e nipote di Ludovico Limentani, uno dei firmatari del “Manifesto degli Intellettuali antifascisti ”, divenne amica di Giorgio Bassani, Silvano Balboni, Gian Luigi Devoto. Ebrea, fu costretta ai lavori coatti in conseguenza delle leggi razziali e, per la sua attività antifascista, fu rinchiusa nel carcere di via Piangipane dal giugno 1943 alla caduta del regime (25 luglio). Attiva tra Ferrara, Padova e Roma, nella capitale entrò nella Resistenza attraverso i “gruppi di lotta” dello PSIUP.“ Ho succhiato latte e antifascismo … La mia famiglia era antifascista per naturale avversione alla dittatura, per l’amore per la libertà… Mi ricordo che ogni volta che mio padre parlava di Mussolini, lo definiva “quel paiàzo”… “Quando arrivò la macchina della questura davanti a casa, capii che era venuta per me. E mia madre, che ne aveva già passate tante per mio padre, che sempre mi diceva di non espormi, di fare attenzione, che l’avrei fatta morire, quella volta nel salutarmi mi disse: “Adesso, fai il tuo dovere”… Non ho mai dimenticato quelle parole, e il mio dovere l’ho fatto. Ho fatto lo sciopero della fame, lo sciopero dell’aria…Ho fatto anche sette, otto ore di interrogatorio senza mai cedere. Una volta sola, con De Sanctis, mi sono ribellata. Mi diceva: “Ma guardi, signorina, lei è una bella ragazza, può sempre trovare qualcuno…”. Gli ho risposto: “No, guardi, dottore, non deve mai essere preoccupato che io pigli il posto di sua sorella o di sua madre!”. Mi diede due schiaffi che mi fecero volare per terra…”.“Eravamo un gruppo di donne al Consorzio agrario, coatte….Era un continuo sparlare: quella ha un figlio e non ha marito, quella fa la puttana…Io non capivo come questi pettegolezzi fossero interessanti. La “puttana”, poi, era la più brava donna che ho conosciuto…”.“Le donne che erano in carcere erano di tutti i generi, non certo sante. Per esempio, c’erano tante lesbiche, mi sembra di Torino, che un agente si divertiva a picchiare con la cintura, con la fibbia… e io dovevo rimanere immobile, altrimenti le avrebbe picchiate il doppio…è stato un supplizio orribile…”.“Un’altra cosa, per farle capire l’imbecillità del capo guardia (come in tutti i tempi, rozzi, ignoranti, mal pagati)… Davanti a noi, anche alla [Alda] Costa, che naturalmente era molto più anziana di me, si denudavano le parti basse…maiali…a me, facevano ridere…”.La testimonianza di Matilde Bassani è stata raccolta da Anna Quarzi ed è pubblicata in“Ferrara Storia” (nn.6-7, gennaio-aprile 1997), rivista diretta dal compianto Prof. Davide Mantovani.

Violenza sessuale.

“Tu hai mai visto un tedesco vestito? Erano alti, avevano il cappotto lungo fino ai piedi. Io, la prima volta che ne vidi uno, quasi caddi in ginocchio… I partigani non pensavano che era pericoloso per me, ma per quello che avevo addosso…Invece, le SS, brutta gente, cercavano le donne, le portavano via con la forza. C’erano anche casi di violenza. Mi ricordo di due, una un po’ farfallina, l’altra, poverina, quando l’hanno rilasciata è fuggita di casa, era di buona famiglia, non ha sopportato… Mentre un’altra ha sposato un tedesco, si vede che era contenta di quello che aveva passato…Io giravo sempre con uno scialle nero intorno al capo, avevo molta paura di essere presa. Quelle donne le portavano al Comando con la scusa che c’erano i lavori da fare, delle patate da pelare… di solito volevano le giovani, non ci si poteva rifiutare perché picchiavano con il moschetto. Donne e uomini.” (Afra Gennari)“Le mie sorelle maggiori credo che avessero una sacrosanta paura di essere “oggetto” di persecuzione, anche di persecuzione sessuale…La paura maggiore di mia madre era questa…” (Edda Levi)“Sapete cosa vuol dire essere una donna e per avere il lavoro, sotto il fascismo, con l’ufficio di collocamento, spesso non solo bisognava piegare la testa, ma fare anche altre cose?” (Nives Gessi)“Uno di quelli che interrogavano…mi allunga una mano sulla coscia…E dopo ci han portati dentro, lì dove c’era Ortolani [in una camera di detenzione in via Savonarola, in città]…Uno è venuto dentro con un altro, io ero seduta, c’era della paglia e mi sono seduta, e mi si sono avvicinati tutti e due, e poi si guardavano nella faccia senza mai dire una parola, e guardavano fissa me…” (Rina Manservigi)“Nelle famiglie le donne lo sapevano tutte quello che facevamo, andavamo in casa delle famiglie che sapevamo più sicure, anzi, condividevano tutte …Anche mia sorella, ci ha salvato anche lei, dopo che l’hanno torturata e distrutta e non ha detto neanche un nome, con quello che le hanno fatto…” (Giulio Rinaldi).“Nel gennaio 1945, appena quattordicenne, Lucia Rinaldi fu prelevata per due volte dalla sua abitazione dalle Brigate Nere, come ostaggio da scambiare con il fratello Giulio. Trattenuta la prima volta alla “Fasanara” di Codigoro e la seconda in una camera di detenzione a Ostellato…fu sottoposta a barbare violenze che ebbero conseguenze pesantissime sulla sua salute psico-fisica. Morta sette anni dopo la fine della guerra, l’autopsia determinerà che la causa della morte doveva essere fatta risalire alle violenze subìte”. (da: Giulio Rinaldi, un partigiano racconta, a cura di Delfina Tromboni e Dante Giordano, Ferrara, Cartografica Artigiana, 2002).

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