Volti di donne nella Resistenza ferrarese: Partigiane 7. e Partigiane 8.

continua la Mostra di Delfina Tromboni.

La scelta.

Come si sceglie di entrare nella Resistenza? Porsi il problema della “scelta” significa, se il soggetto che si interpella è una donna, assumere un punto di vista non usuale. C’è infatti una constatazione semplice che si è nel tempo imposta in un dibattito storiografico e politico abitudinario e asfittico, grazie alle donne che della Resistenza hanno fatto esperienza, e che quella esperienza hanno fatto lievitare facendone materia di riflessione e di memoria.Si tratta del fatto che, per ciascuna donna il cui percorso di vita ha ad un certo punto incrociato la guerra di Liberazione, la “scelta” si è presentata scevra dai vincoli che in parte condizionarono quella degli uomini.Per una donna, infatti, non si poneva l’alternativa tra il combattere nell’esercito della Repubblica Sociale e la renitenza o la diserzione. Solo un numero decisamente minoritario di donne, “le soldatesse di Mussolini” le ha chiamate L. Garibaldi, si trovò in questa condizione, come ci hanno mostrato i pregevoli studi sulla RSI della storica Dianella Gagliani e come conferma il carteggio sul campo di concentramento per le ausiliarie della Repubblica Sociale che si conserva in Archivio Centrale dello Stato.Per una donna non era in qualche modo obbligata la via che indusse molti giovani ad entrare nelle file partigiane.La scelta, per una donna, non poté che essere soggettiva e consapevole.Di più: essa germinò nella temperie di una fin lì insospettata libertà d’azione, che si rendeva possibile proprio laddove la mancanza di libertà era più forte: lo spazio separato dalla sfera pubblica in cui il sistema simbolico dei rapporti sociali tra i sessi, la mentalità comune, costringeva le donne.Porto qui la testimonianza di una donna apparentemente molto lontana dallo stereotipo della partigiana di tradizione comunista o, al più, socialista: Suor Agnese, al secolo Maria Bulgarelli, capoinfermiera dell’Arcispedale S.Anna, nel cui reparto venivano ricoverati i prigionieri politici.Sorella di un partigiano caduto, Danilo, Suor Agnese allontana subito da sé, con un tono di voce che non ammette repliche, l’idea che ad indurla alla Resistenza fosse stata l’uccisione del fratello:“Quel che ho potuto fare, l’ho fatto spontaneamente, quando ancora mio fratello non era stato ucciso…Io lavoravo così, per lo spirito di carità, eh? Per il mio spirito di suora consacrata, per il bene di questi ragazzi, per il bene loro, proprio io lo sentivo dentro di me di far questa cosa, di aiutarli…Ho sofferto molto”.Molti sono gli episodi che racconta, dalla somministrazione clandestina di un farmaco che consentiva di prolungare il ricovero dei detenuti, al prendersi in carico il marito malato di cancro di una donna della famiglia ebrea dei Vita Finzi, per consentirle la fuga a Roma con la figlia, e così via.Racconta con vivace allegria delle tante prostitute ricoverate nel reparto di fronte al suo, che aspettavano i bombardamenti come una manna dal cielo per potersene scappare e che con i loro soldi, “tutte”, fecero poi costruire nell’ospedale una cappelletta dedicata alla Madonna, per ringraziarla di averle salvate dalle bombe.Ma è in quel: “l’ho fatto spontaneamente” che sta il nocciolo di verità prezioso che Suor Agnese ci consegna, consentendoci di aggiustare il nostro punto di vista sulle donne che operarono la scelta della Resistenza.Ho raccontato la storia di Suor Agnese nel libro “Con animo di donna. L’esperienza della Resistenza. Narrazione e memoria”, che ho curato per l’Archivio storico dell’UDI di Ferrara e pubblicato nel 1998. La sua testimonianza, registrata da Luigi Sandri, è nell’Archivio delle Fonti orali del Centro Etnografico Ferrarese, oggi conservato in Archivio Storico comunale.

La classe.

L’antifascismo è maturato in me attraverso l’esperienza stessa della mia esistenza, delle ingiustizie che ho visto e che ho vissuto. Nell’azienda dove lavoravo io eravamo circa ottanta unità fra uomini e donne e mi ricordo che gli uomini anziani portavano avanti un certo discorso di ribellione, ma non c’era niente da fare: l’agrario non permetteva discussioni. Il mio antifascismo è venuto anche dalla repressione economica. Ricordo che a lavorare con me c’era una famiglia di due genitori con otto figli. Questa madre povera doveva accudire alle faccende e alla famiglia e seguiva il marito nei lavori della campagna. Quando si andava alla resa dei conti dell’annata agraria questo povero bracciante andava a pagare i debiti che aveva fatto nella bottega, e quando aveva pagato gli rimaneva per comperare un paio di zoccoli per i figli e riapriva la lista dei debiti per l’anno prossimo. I figli nel ’40 hanno cominciato a partire per la guerra e molti non sono mai più ritronati. Questo è stato il premio [per le famiglie numerose] che hanno avuto i nostri braccianti.Mia nonna è sempre stata bracciante anche lei, abitava nella casa detta Villa Dazio a Bondeno. Lì hanno subìto anche le persecuzioni fasciste. Ha avuto la casa circondata dai fascisti più di una volta e lì ha avuto nascosta in cantina per più di due anni la biblioteca popolare nascosta [da mia madre] in una botte di vino vuota.Mio padre è sempre stato un carattere molto diverso… Mi ricordo quando si andava nella stalla a filare, non è che si andava a filare per uso familiare, la tela si vendeva, serviva per pagare i debiti e mio padre non capiva queste cose, non apprezzava il sacrificio che la donna doveva affrontare in quel periodo: cioè doveva sopportare non soltanto l’affronto ingiusto in campo sociale ma anche nella famiglia. E così con mio papà non sono mai andata d’accordo.La mia ribellione è stata quella di portare avanti la mia attività e di dare il mio contributo a tutte le donne che hanno subìto angherie, vedendo queste cose ho sentito in me la forza di reagire”.Dalla testimonianza di Silvana Lodi, nome di battaglia “Carla”, responsabile dei Gruppi di Difesa della Donna e di assistenza ai combattenti per la Libertà, che nel Bondenese contavano 126 aderenti. In quella veste, “Carla” fu la principale animatrice della occupazione del Municipio di Bondeno il 18 febbraio 1945.Moltissime partigiane ferraresi erano braccianti giornaliere, compartecipanti agricole, operaie. Le loro testimonianze richiamano aziende e fabbriche che non esistono più: la VECA, la Sgarbi & Chiozzi, La Gomma Sintetica, l’AVE… Anche i quartieri in cui vivevano, socialmente omogenei, portavano nomi ”identitari”: il quartiere Lenin (Nives Gessi, nome di battaglia “Franca”), Burana la rossa (Cerere Bagnolati, nome di battaglia “Maria”), la borgata rossa di Santa Maria Codifiume (Rina Manservigi, nome di battaglia “Vispa”).La lotta di classe entra dunque di prepotenza nella loro esperienza resistenziale. E si mescola, spessissimo, con la lotta contro il sessismo maschile, che si fa più forte quando pensa di poter far leva sullo stato di povertà di una donna:“Ne avevo proprio uno che abitava in piazza, che aveva il negozio di alimentari, e quello lì non mi andava proprio, perché quello era il capo dei fascisti, era cattivo, era perfido…si comportava male, come fanno tutti gli uomini, sai come fanno gli uomini quando c’è una donna che piace…vogliono pretendere”.(Rina Tagliani)Alcune delle interviste citate sono reperibili nell’Archivio delle Fonti orali del Centro Etnografico Ferrarese, conservato nell’ Archivio Storico del Comune di Ferrara. Altre in quello del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara. Silvana Lodi è stata intervistata da Renato Sitti e Carla Ticchioni; Rina Tagliani da Micaela Gavioli. Le interviste a Rina Manservigi e Nives Gessi sono state registrate da me durante la preparazione del volume che ho curato per l’Archivio Storico dell’UDI di Ferrara: “Con animo di donna. L’esperienza della guerra e della Resistenza. Narrazione e memoria” pubblicato nel 1998.

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