di Angelo D’Orsi per http://www.alganews.it
L’ho visto. Li ho visti. Se il crollo del Ponte Morandi a Genova, tre settimane fa, mi aveva gettato nell’angoscia, questa visione mi ha dato un senso di disagio estremo, che sono riuscito a vincere solo dopo ore. Dopo molte ore. Di che sto parlando? Della nobile e antica città di Viterbo che si è prostrata e vorrei dire prostituita al nuovo duce della politica italiana. Matteo Salvini, a lui mi riferisco, aveva tempestivamente segnalato ai suoi innumerevoli fans che il 3 settembre sarebbe stato nella città laziale, per la tradizionale festa di Santa Rosa da Viterbo (personaggio vissuto nel XIII secolo), che consiste in una ostensione della santa attraverso una macchina che passa per le vie del centro. L’annunciata visita dell’onnipresente ministro e vero capo del governo, sovrastante l’imbelle Di Maio e l’inesistente Conte, ha generato eccitata attesa tra i viterbesi, che, in effetti, hanno poi regalato al tribuno da talk show una imbarazzante, tonitruante ovazione, di cui è difficile trovare esempi, anche per gli specialisti della comunicazione politica. Per chi non fosse stato presente, la Rete sopperisce: anche vista in differita, su un piccolo o piccolissimo schermo, si tratta di un’esperienza irrinunciabile, anche se assai costosa sul piano psicologico e politico-intellettuale. Migliaia di persone, assiepate per assistere al passaggio della “macchina” con la statua della Santa (un pesantissimo aggeggio di circa trenta metri di altezza e di peso coerente), hanno di colpo obliterato la ragione della loro presenza, anche se, sospettiamo, molti erano già là non per Rosa ma per Matteo. In effetti è stato il suo nome, non quello della dama medievale canonizzata le cui spoglie furono traslate a Viterbo nell’anno 1258. Le scene che le videocamere ci hanno regalato sono agghiaccianti: Salvini fa la sua marcia trionfale, anticipando di qualche ora quella della Santa, distribuendo cenni, occhiate complici, strette di mano, pacche sulle spalle, lanciando baci, a migliaia di donne, uomini, vecchi e ragazzi, trasformati in suoi personali fedeli: le donne, soprattutto, strepitano agitando le braccia: “Matteo, Matteo…”, invocando quanto meno uno sguardo, magari un tocco taumaturgico da parte di chi bene ha sostituito i vecchi idoli lontani nel tempo, e illanguiditi dalla distanza, ponendo se stesso e il proprio corpo come vivente reliquia da osannare, da sfiorare con sguardi e mani, se proprio non si riesce ad afferrarne un pezzo. Lui cammina, talora con un po’ d’imbarazzo per la situazione, e cerca di non esagerare con gli ammicchi, ma non può resistere: il bagno di folla è eccitante, e il leader ne esce sempre rafforzato politicamente e rinsaldato come icona popolare. L’icona salviniana, costruita essenzialmente nei dibattiti tv, consente a chi voglia studiarlo, di cogliere i tratti essenziali del suo atteggiamento che spiega la fortuna di questo “rozzo bestione” (citazione di Giambattista Vico!), diventato una macchina da consenso: un discorso elementare, un eloquio sempre terra terra, uno sviare quando arrivano domande “impertinenti”, una gestualità che indica disinteresse e fastidio per chi cerchi di incastrarlo coi ragionamenti (“bel professore…”; “ah questi professori…!”, “ma lei parla difficile: chi la capisce?!”, “non ho tempo da perdere con questa gente…”; “io ho da fare!…”), l’abbinamento efficace di durezza decisionista (io sono il ministro, decido io, domani si farà così, ho fatto e rifarei quello che ho fatto…) e di “simpatia” verso chi lo attacca (“sarò lieto di accoglierlo”, “gli mando un bacio”, “mi sta simpatico”…). Tutto questo in una miscela che non è neppure tanto studiata, ma in parte naturale: la spontaneità salviniana, suo tratto fin dall’abbigliamento (la camicia aperta e sudata, il braccialetto al polso, l’aria trasandata…), è un dato vincente, un dato che lo fa essere uno di noi, che rompe la separatezza tra il politico e il cittadino. Salvini “è uno di noi”, fa i discorsi che vogliamo sentire, se ne frega dei grandi temi mondiali, si disinteressa di ciò che accade lontano, e si concentra invece sull’orto di casa. Non per nulla, anche se diventato ormai nazionale, il suo partito nasce come forza territoriale e questo tratto lo porta nel suo dna. E la spontaneità viene sempre scambiata per veridicità: è spontaneo, dunque è vero, e dice il vero. Dice, anzi, “quello che gli altri non dicono”…Ma tutta questa analisi frettolosa cede davanti alle immagini della folla che non si limita a onorare, ma ama, ama vorrei dire carnalmente, il suo leader: lo accompagna con la voce, lo insegue fin tanto che è possibile, lo bracca con la richiesta di selfie, o quando il capo si sottrae, si accontenta, brontolando, di immortalarlo sul proprio smartphone, immagini che costituiscono preziosi trofei di caccia. E a dimostrazione che il cattolicesimo del popolo italiano è fatto di esteriorità e convenzione, ecco che la Santa viene completamente dimenticata, scacciata dalla nuova icona. Matteo, appunto, sostituisce Rosa. Nell’annunciare la sua presenza, il nostro aveva cinguettato: “Viva le nostre tradizioni”. A festa archiviata, pronto a capitalizzare quell’incredibile (credo anche per lui) bagno di folla, ha lanciato questo proclama: “Grazie alla gente di Viterbo, incontrata per la splendida festa di Santa Rosa: altro che inchieste e insulti, questi sono i sondaggi che preferisco! Ovviamente in tivù non vedrete queste immagini”. Dove, in una, ha accusato il “sistema” (alludendo a media e magistratura e politici avversi), sistema di cui è parte fondamentale, ma al quale si proclama estraneo, e ha rilanciato sul tema della tradizione nostrana. E ha manifestato, in modo perfetto, che cosa voglia dire “populismo”, o quanto meno il proprio populismo: il richiamo diretto più che al popolo, alla “gente”, un elemento amorfo e prepolitico, un tutto indistinto, da manovrare e manipolare, usando i suoi linguaggi, cogliendone le aspirazioni, e incentivandone le paure… La gente, sola fonte di salvezza, a cui abbeverarsi, unica fonte di legittimazione del potere, ma nelle forme di un plebiscitarismo apolitico che nulla ha a che fare con qualsiasi forma di democrazia. E la “gente”, referente di Salvini, lo accoglie fra le sue braccia, pronta domani a votarlo, pronta oggi all’applauso, al bacio, alla carezza. Eppure, con questa gente bisognerà fare i conti, se non vogliamo vedere, e subire, il nuovo Matteo nazionale (che ha scalzato il precedente, il Matteo di Rignano), a decidere le sorti del paese – l’Italia, non Viterbo o Bergamo – per il prossimo ventennio.
Descrizione perfetta di un mostro e di un fenomeno sociale. C’è da provare malessere e disgusto più che per ore. Direi per mesi. E non finisce qui, temo. Bisogna arginare!
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