Pier Paolo Pasolini |
- Le ceneri di Gramsci
|
- I

-
- Non è di maggio questa impura aria
- che il buio giardino straniero
- fa ancora più buio, o l’abbaglia
-
- con cieche schiarite… questo cielo
- di bave sopra gli attici giallini
- che in semicerchi immensi fanno velo
-
- alle curve del Tevere, ai turchini
- monti del Lazio… Spande una mortale
- pace, disamorata come i nostri destini,
-
- tra le vecchie muraglie l’autunnale
- maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
- la fine del decennio in cui ci appare
-
- tra le macerie finito il profondo
- e ingenuo sforzo di rifare la vita;
- il silenzio, fradicio e infecondo…
-
- Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
- era ancora vita, in quel maggio italiano
- che alla vita aggiungeva almeno ardore,
-
- quanto meno sventato e impuramente
- sano
- dei nostri padri – non padre, ma umile
- fratello – già con la tua magra mano
-
- delineavi l’ideale che illumina
-
- (ma non per noi: tu morto, e noi
- morti ugualmente, con te, nell’umido
-
- giardino) questo silenzio. Non puoi,
- lo vedi?, che riposare in questo sito
- estraneo, ancora confinato. Noia
-
- patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
- solo ti giunge qualche colpo d’incudine
- dalle officine di Testaccio, sopito
-
- nel vespro: tra misere tettoie, nudi
- mucchi di latta, ferrivecchi, dove
- cantando vizioso un garzone già chiude
-
- la sua giornata, mentre intorno spiove.
|
- II
-
- Tra i due mondi, la tregua, in cui non
- siamo.
- Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
- ormai che questo del giardino gramo
-
- e nobile, in cui caparbio l’inganno
- che attutiva la vita resta nella morte.
- Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
-
- che mostrare la superstite sorte
- di gente laica le laiche iscrizioni
- in queste grigie pietre, corte
-
- e imponenti. Ancora di passioni
- sfrenate senza scandalo son arse
- le ossa dei miliardari di nazioni
-
- più grandi; ronzano, quasi mai
- scomparse,
- le ironie dei principi, dei pederasti,
- i cui corpi sono nell’urne sparse
-
- inceneriti e non ancora casti.
- Qui il silenzio della morte è fede
- di un civile silenzio di uomini rimasti
-
- uomini, di un tedio che nel tedio
- del Parco, discreto muta: e la città
- che, indifferente, lo confina in mezzo
-
- a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
- vi perde il suo splendore. La sua terra
- grassa di ortiche e di legumi dà
-
- questi magri cipressi, questa nera
- umidità che chiazza i muri intorno
- a smotti ghirigori di bosso, che la sera
-
- rasserenando spegne in disadorni
- sentori d’alga… quest’erbetta stenta
- e inodora, dove violetta si sprofonda
-
- l’atmosfera, con un brivido di menta,
- o fieno marcio, e quieta vi prelude
- con diurna malinconia, la spenta
-
- trepidazione della notte. Rude
- di clima, dolcissimo di storia, è
- tra questi muri il suolo in cui trasuda
-
- altro suolo; questo umido che
- ricorda altro umido; e risuonano
- – familiari da latitudini e
-
- orizzonti dove inglesi selve coronano
- laghi spersi nel cielo, tra praterie
- verdi come fosforici biliardi o come
-
- smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
- invocazioni…
|
- III
-
- Uno straccetto rosso, come quello
- arrotolato al collo ai partigiani
- e, presso l’urna, sul terreno cereo,
-
- diversamente rossi, due gerani.
- Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
- non cattolica, elencato tra estranei
-
- morti: Le ceneri di Gramsci… Tra
- speranza
- e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
- per caso in questa magra serra, innanzi
-
- alla tua tomba, al tuo spirito restato
- quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
- di diverso, forse, di più estasiato
-
- e anche di più umile, ebbra simbiosi
- d’adolescente di sesso con morte…)
- E, da questo paese in cui non ebbe posa
-
- la tua tensione, sento quale torto
- – qui nella quiete delle tombe – e insieme
- quale ragione – nell’inquieta sorte
-
- nostra – tu avessi stilando le supreme
- pagine nei giorni del tuo assassinio.
- Ecco qui ad attestare il seme
-
- non ancora disperso dell’antico dominio,
- questi morti attaccati a un possesso
- che affonda nei secoli il suo abominio
-
- e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
- quel vibrare d’incudini, in sordina,
- soffocato e accorante – dal dimesso
-
- rione – ad attestarne la fine.
- Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
- dei panni che i poveri adocchiano in
- vetrine
-
- dal rozzo splendore, e che ha smarrito
- la sporcizia delle più sperdute strade,
- delle panche dei tram, da cui stranito
-
- è il mio giorno: mentre sempre più rade
- ho di queste vacanze, nel tormento
- del mantenermi in vita; e se mi accade
-
- di amare il mondo non è che per violento
- e ingenuo amore sensuale
- così come, confuso adolescente, un tempo
-
- l’odiai, se in esso mi feriva il male
- borghese di me borghese: e ora, scisso
- – con te – il mondo, oggetto non appare
-
- di rancore e quasi di mistico
- disprezzo, la parte che ne ha il potere?
- Eppure senza il tuo rigore, sussisto
-
- perché non scelgo. Vivo nel non volere
- del tramontato dopoguerra: amando
- il mondo che odio – nella sua miseria
-
- sprezzante e perso – per un oscuro
- scandalo
- della coscienza…
|
- IV
-
- Lo scandalo del contraddirmi,
- dell’essere
- con te e contro te; con te nel core,
- in luce, contro te nelle buie viscere;
-
- del mio paterno stato traditore
- – nel pensiero, in un’ombra di azione –
- mi so ad esso attaccato nel calore
-
- degli istinti, dell’estetica passione;
- attratto da una vita proletaria
- a te anteriore, è per me religione
-
- la sua allegria, non la millenaria
- sua lotta: la sua natura, non la sua
- coscienza: è la forza originaria
-
- dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
- a darle l’ebbrezza della nostalgia,
- una luce poetica: ed altro più
-
- io non so dirne, che non sia
- giusto ma non sincero, astratto
- amore, non accorante simpatia…
-
- Come i poveri povero, mi attacco
- come loro a umilianti speranze,
- come loro per vivere mi batto
-
- ogni giorno. Ma nella desolante
- mia condizione di diseredato,
- io possiedo: ed è il più esaltante
-
- dei possessi borghesi, lo stato
- più assoluto. Ma come io possiedo la
- storia,
- essa mi possiede; ne sono illuminato:
-
- ma a che serve la luce?
|
- V
-
- Non dico l’individuo, il fenomeno
- dell’ardore sensuale e sentimentale…
- altri vizi esso ha, altro è il nome
-
- e la fatalità del suo peccare…
- Ma in esso impastati quali comuni,
- prenatali vizi, e quale
-
- oggettivo peccato! Non sono immuni
- gli interni e esterni atti, che lo fanno
- incarnato alla vita, da nessuna
-
- delle religioni che nella vita stanno,
- ipoteca di morte, istituite
- a ingannare la luce, a dar luce
- all’inganno.
- Destinate a esser seppellite
- le sue spoglie al Verano, è cattolica
- la sua lotta con esse: gesuitiche
-
- le manie con cui dispone il cuore;
- e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
- la sua coscienza… e ironico ardore
-
- liberale… e rozza luce, tra i disgusti
- di dandy provinciale, di provinciale
- salute… Fino alle infime minuzie
-
- in cui sfumano, nel fondo animale,
- Autorità e Anarchia… Ben protetto
- dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,
-
- difendendo una ingenuità di ossesso,
- e con quale coscienza!, vive l’io: io,
- vivo, eludendo la vita, con nel petto
-
- il senso di una vita che sia oblio
- accorante, violento… Ah come
- capisco, muto nel fradicio brusio
-
- del vento, qui dov’è muta Roma,
- tra i cipressi stancamente sconvolti,
- presso te, l’anima il cui graffito suona
-
- Shelley… Come capisco il vortice
- dei sentimenti, il capriccio (greco
- nel cuore del patrizio, nordico
-
- villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
- celeste del Tirreno; la carnale
- gioia dell’avventura, estetica
-
- e puerile: mentre prostrata l’Italia
- come dentro il ventre di un’enorme
- cicala, spalanca bianchi litorali,
-
- sparsi nel Lazio di velate torme
- di pini, barocchi, di giallognole
- radure di ruchetta, dove dorme
-
- col membro gonfio tra gli stracci un
- sogno
- goethiano, il giovincello ciociaro…
- Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
-
- d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
- il nocciolo, pei viottoli che il buttero
- della sua gioventù ricolma ignaro.
-
- Ciecamente fragranti nelle asciutte
- curve della Versilia, che sul mare
- aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
-
- le tarsie lievi della sua pasquale
- campagna interamente umana,
- espone, incupita sul Cinquale,
-
- dipanata sotto le torride Apuane,
- i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
- frane, sconvolti, come per un panico
-
- di fragranza, nella Riviera, molle,
- erta, dove il sole lotta con la brezza
- a dar suprema soavità agli olii
-
- del mare… E intorno ronza di lietezza
- lo sterminato strumento a percussione
- del sesso e della luce: così avvezza
-
- ne è l’Italia che non ne trema, come
- morta nella sua vita: gridano caldi
- da centinaia di porti il nome
-
- del compagno i giovinetti madidi
- nel bruno della faccia, tra la gente
- rivierasca, presso orti di cardi,
-
- in luride spiaggette…
-
- Mi chiederai tu, morto disadorno,
- d’abbandonare questa disperata
- passione di essere nel mondo?
|
- VI
-
- Me ne vado, ti lascio nella sera
- che, benché triste, così dolce scende
- per noi viventi, con la luce cerea
-
- che al quartiere in penombra si
- rapprende.
- E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
- intorno, e, più lontano, lo riaccende
-
- di una vita smaniosa che del roco
- rotolio dei tram, dei gridi umani,
- dialettali, fa un concerto fioco
-
- e assoluto. E senti come in quei lontani
- esseri che, in vita, gridano, ridono,
- in quei loro veicoli, in quei grami
-
- caseggiati dove si consuma l’infido
- ed espansivo dono dell’esistenza –
- quella vita non è che un brivido;
-
- corporea, collettiva presenza;
- senti il mancare di ogni religione
- vera; non vita, ma sopravvivenza
-
- – forse più lieta della vita – come
- d’un popolo di animali, nel cui arcano
- orgasmo non ci sia altra passione
-
- che per l’operare quotidiano:
- umile fervore cui dà un senso di festa
- l’umile corruzione. Quanto più è vano
-
- – in questo vuoto della storia, in questa
- ronzante pausa in cui la vita tace –
- ogni ideale, meglio è manifesta
-
- la stupenda, adusta sensualità
- quasi alessandrina, che tutto minia
- e impuramente accende, quando qua
-
- nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
- il mondo, nella penombra, rientrando
- in vuote piazze, in scorate officine…
-
- Già si accendono i lumi, costellando
- Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
- Testaccio, disadorno tra il suo grande
-
- lurido monte, i lungoteveri, il nero
- fondale, oltre il fiume, che Monteverde
- ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
-
- Diademi di lumi che si perdono,
- smaglianti, e freddi di tristezza
- quasi marina… Manca poco alla cena;
-
- brillano i rari autobus del quartiere,
- con grappoli d’operai agli sportelli,
- e gruppi di militari vanno, senza fretta,
-
- verso il monte che cela in mezzo a sterri
- fradici e mucchi secchi d’immondizia
- nell’ombra, rintanate zoccolette
-
- che aspettano irose sopra la sporcizia
- afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
- abusive ai margini del monte, o in mezzo
-
- a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
- leggeri come stracci giocano alla brezza
- non più fredda, primaverile; ardenti
-
- di sventatezza giovanile la romanesca
- loro sera di maggio scuri adolescenti
- fischiano pei marciapiedi, nella festa
-
- vespertina; e scrosciano le
- saracinesche
- dei garages di schianto, gioiosamente,
- se il buio ha resa serena la sera,
-
- e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
- il vento che cade in tremiti di bufera,
- è ben dolce, benché radendo i capellacci
-
- e i tufi del Macello, vi si imbeva
- di sangue marcio, e per ogni dove
- agiti rifiuti e odore di miseria.
-
- È un brusio la vita, e questi persi
- in essa, la perdono serenamente,
- se il cuore ne hanno pieno: a godersi
-
- eccoli, miseri, la sera: e potente
- in essi, inermi, per essi, il mito
- rinasce… Ma io, con il cuore cosciente
-
- di chi soltanto nella storia ha vita,
- potrò mai più con pura passione operare,
- se so che la nostra storia è finita?
-
- 1954
|
- Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: “Cinera Gramsci” con le date.
-
- Il pianto della scavatrice
|
- I
-
- Solo l’amare, solo il conoscere
- conta, non l’aver amato,
- non l’aver conosciuto. Dà angoscia
-
- il vivere di un consumato
- amore. L’anima non cresce più.
- Ecco nel calore incantato
-
- della notte che piena quaggiù
- tra le curve del fiume e le sopite
- visioni della città sparsa di luci,
-
- scheggia ancora di mille vite,
- disamore, mistero, e miseria
- dei sensi, mi rendono nemiche
- le forme del mondo, che fino a ieri
- erano la mia ragione d’esistere.
- Annoiato, stanco, rincaso, per neri
-
- piazzali di mercati, tristi
- strade intorno al porto fluviale,
- tra le baracche e i magazzini misti
-
- agli ultimi prati. Lì mortale
- è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
- alla stazione di Trastevere, appare
-
- ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
- alle loro borgate, tornano su motori
- leggeri – in tuta o coi calzoni
-
- di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
- i giovani, coi compagni sui sellini,
- ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
-
- chiacchierano in piedi con voci
- alte nella notte, qua e là, ai tavolini
- dei locali ancora lucenti e semivuoti.
-
- Stupenda e misera città,
- che m’hai insegnato ciò che allegri e
- feroci
- gli uomini imparano bambini,
-
- le piccole cose in cui la grandezza
- della vita in pace si scopre, come
- andare duri e pronti nella ressa
-
- delle strade, rivolgersi a un altro uomo
- senza tremare, non vergognarsi
- di guardare il denaro contato
-
- con pigre dita dal fattorino
- che suda contro le facciate in corsa
- in un colore eterno d’estate;
-
- a difendermi, a offendere, ad avere
- il mondo davanti agli occhi e non
- soltanto in cuore, a capire
-
- che pochi conoscono le passioni
- in cui io sono vissuto:
- che non mi sono fraterni, eppure sono
-
- fratelli proprio nell’avere
- passioni di uomini
- che allegri, inconsci, interi
-
- vivono di esperienze
- ignote a me. Stupenda e misera
- città che mi hai fatto fare
-
- esperienza di quella vita
- ignota: fino a farmi scoprire
- ciò che, in ognun, era il mondo.
-
- Una luna morente nel silenzio,
- che di lei vive, sbianca tra violenti
- ardori, che miseramente sulla terra
-
- muta di vita, coi bei viali, le vecchie
- viuzze, senza dar luce abbagliano
- e, in tutto il mondo, le riflette
-
- lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
- È la notte più bella dell’estate.
- Trastevere, in un odore di paglia
-
- di vecchie stalle, di svuotate
- osterie, non dorme ancora.
- Gli angoli bui, le pareti placide
-
- risuonano d’incantati rumori.
- Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- – sotto festoni di luci ormai sole –
-
- verso i loro vicoli, che intasano
- buio e immondizia, con quel passo blando
- da cui più l’anima era invasa
-
- quando veramente amavo, quando
- veramente volevo capire.
- E, come allora, scompaiono cantando.
|
- II
-
- Povero come un gatto del Colosseo,
- vivevo in una borgata tutta calce
- e polverone, lontano dalla città
-
- e dalla campagna, stretto ogni giorno
- in un autobus rantolante:
- e ogni andata, ogni ritorno
-
- era un calvario di sudore e di ansie.
- Lunghe camminate in una calda caligine,
- lunghi crepuscoli davanti alle carte
-
- ammucchiate sul tavolo, tra strade di
- fango,
- muriccioli, casette bagnate di calce
- e senza infissi, con tende per porte…
-
- Passano l’olivaio, lo straccivendolo,
- venendo da qualche altra borgata,
- con l’impolverata merce che pareva
-
- frutto di furto, e una faccia crudele
- di giovani invecchiati tra i vizi
- di chi ha una madre dura e affamata.
-
- Rinnovato dal mondo nuovo,
- libero – una vampa, un fiato
- che non so dire, alla realtà
-
- che umile e sporca, confusa e immensa,
- brulicava nella meridionale periferia,
- dava un senso di serena pietà.
-
- Un’anima in me, che non era solo mia,
- una piccola anima in quel mondo
- sconfinato,
- cresceva, nutrita dall’allegria
-
- di chi amava, anche se non riamato.
- E tutto si illuminava, a questo amore.
- Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
-
- e però maturato dall’esperienza
- che nasceva ai piedi della storia.
- Ero al centro del mondo, in quel mondo
-
- di borgate tristi, beduine,
- di gialle praterie sfregate
- da un vento sempre senza pace,
-
- venisse dal caldo mare di Fiumicino,
- o dall’agro, dove si perdeva
- la città fra i tuguri; in quel mondo
-
- che poteva soltanto dominare,
- quadrato spettro giallognolo
- nella giallognola foschia,
-
- bucato da mille file uguali
- di finestre sbarrate, il Penitenziario
- tra vecchi campi e sopiti casali.
-
- Le cartacce e la polvere che cieco
- il venticello trascinava qua e là,
- le povere voci senza eco
-
- di donnette venute dai monti
- Sabini, dall’Adriatico, e qua
- accampate, ormai con torme
-
- di deperiti e duri ragazzini
- stridenti nelle canottiere a pezzi,
- nei grigi, bruciati calzoncini,
-
- i soli africani, le piogge agitate
- che rendevano torrenti di fango
- le strade, gli autobus ai capolinea
-
- affondati nel loro angolo
- tra un’ultima striscia d’erba bianca
- e qualche acido, ardente immondezzaio…
-
- era il centro del mondo, com’era
- al centro della storia il mio amore
- per esso: e in questa
-
- maturità che per essere nascente
- era ancora amore, tutto era
- per divenire chiaro – era,
-
- chiaro! Quel borgo nudo al vento,
- non romano, non meridionale,
- non operaio, era la vita
-
- nella sua luce più attuale:
- vita, e luce della vita, piena
- nel caos non ancora proletario,
-
- come la vuole il rozzo giornale
- della cellula, l’ultimo
- sventolio del rotocalco: osso
-
- dell’esistenza quotidiana,
- pura, per essere fin troppo
- prossima, assoluta per essere
-
- fin troppo miseramente umana.
|
- III
-
- E ora rincaso, ricco di quegli anni
- così nuovi che non avrei mai pensato
- di saperli vecchi in un’anima
-
- a essi lontana, come a ogni passato.
- Salgo i viali del Gianicolo, fermo
- da un bivio liberty, a un largo alberato,
-
- a un troncone di mura – ormai al termine
- della città sull’ondulata pianura
- che si apre sul mare. E mi rigermina
-
- nell’anima – inerte e scura
- come la notte abbandonata al profumo
- una semenza ormai troppo matura
-
- per dare ancora frutto, nel cumulo
- di una vita tornata stanca e acerba…
- Ecco Villa Pamphili, e nel lume
-
- che tranquillo riverbera
- sui nuovi muri, la via dove abito.
- Presso la mia casa, su un’erba
-
- ridotta a un’oscura bava,
- una traccia sulle voragini scavate
- di fresco, nel tufo – caduta ogni rabbia
-
- di distruzione – rampa contro radi palazzi
- e pezzi di cielo, inanimata,
- una scavatrice…
-
- Che pena m’invade, davanti a questi
- attrezzi
- supini, sparsi qua e là nel fango,
- davanti a questo canovaccio rosso
-
- che pende a un cavalletto, nell’angolo
- dove la notte sembra più triste?
- Perché, a questa spenta tinta di sangue,
-
- la mia coscienza così ciecamente resiste,
- si nasconde, quasi per un ossesso
- rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?
-
- Perché dentro in me è lo stesso senso
- di giornate per sempre inadempite
- che è nel morto firmamento
-
- in cui sbianca questa scavatrice?
-
- Mi spoglio in una delle mille stanze
- dove a via Fonteiana si dorme.
- Su tutto puoi scavare, tempo: speranze
-
- passioni. Ma non su queste forme
- pure della vita… Si riduce
- ad esse l’uomo, quando colme
-
- siano esperienza e fiducia
- nel mondo… Ah, giorni di Rebibbia,
- che io credevo persi in una luce
-
- di necessità, e che ora so così liberi!
-
- Insieme al cuore, allora, pei difficili
- casi che ne avevano sperduto
- il corso verso un destino umano,
-
- guadagnando in ardore la chiarezza
- negata, e in ingenuità
- il negato equilibrio – alla chiarezza
-
- all’equilibrio giungeva anche,
- in quei giorni, la mente. E il cieco
- rimpianto, segno di ogni mia
-
- lotta col mondo, respingevano, ecco,
- adulte benché inesperte ideologie…
- Si faceva, il mondo, soggetto
-
- non più di mistero ma di storia.
- Si moltiplicava per mille la gioia
- del conoscerlo – come
-
- ogni uomo, umilmente, conosce.
- Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
- furono vivi nelle vive esperienze.
-
- Mutò la materia di un decennio d’oscura
- vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
- che più pareva essere ideale figura
-
- a una ideale generazione;
- in ogni pagina, in ogni riga
- che scrivevo, nell’esilio di Rebibbia,
-
- c’era quel fervore, quella presunzione,
- quella gratitudine. Nuovo
- nella mia nuova condizione
-
- di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
- i pochi amici che venivano
- da me, nelle mattine o nelle sere
-
- dimenticate sul Penitenziario,
- mi videro dentro una luce viva:
- mite, violento rivoluzionario
-
- nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva
|
- IV
-
- Mi stringe contro il suo vecchio vello,
- che profuma di bosco, e mi posa
- il muso con le sue zanne di verro
-
- o errante orso dal fiato di rosa,
- sulla bocca: e intorno a me la stanza
- è una radura, la coltre corrosa
-
- dagli ultimi sudori giovanili, danza
- come un velame di pollini… E infatti
- cammino per una strada che avanza
-
- tra i primi prati primaverili, sfatti
- in una luce di paradiso…
- Trasportato dall’onda dei passi,
-
- questa che lascio alle spalle, lieve e
- misero,
- non è la periferia di Roma: “Viva
- Mexico!” è scritto a calce o inciso
-
- sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
- decrepiti, leggeri come osso, ai confini
- di un bruciante cielo senza un brivido.
-
- Ecco, in cima a una collina
- fra le ondulazioni, miste alle nubi,
- di una vecchia catena appenninica,
-
- la città, mezza vuota, benché sia l’ora
- della mattina, quando vanno le donne
- alla spesa – o del vespro che indora
-
- i bambini che corrono con le mamme
- fuori dai cortili della scuola.
- Da un gran silenzio le strade sono invase:
-
- si perdono i selciati un po’ sconnessi,
- vecchi come il tempo, grigi come il
- tempo,
- e due lunghi listoni di pietra
-
- corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
- Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
- qualche vecchia, qualche ragazzetto
-
- perduto nei suoi giuochi, dove
- i portali di un dolce Cinquecento
- s’aprano sereni, o un pozzetto
-
- con bestioline intarsiate sui bordi
- posi sopra la povera erba,
- in qualche bivio o canto dimenticato.
-
- Si apre sulla cima del colle l’erma
- piazza del comune, e fra casa
- e casa, oltre un muretto, e il verde
-
- d’un grande castagno, si vede
- lo spazio della valle: ma non la valle.
- Uno spazio che tremola celeste
-
- o appena cereo… Ma il Corso continua,
- oltre quella familiare piazzetta
- sospesa nel cielo appenninico:
-
- s’interna fra case più strette, scende
- un po’ a mezza costa: e più in basso
- – quando le barocche casette diradano
-
- ecco apparire la valle – e il deserto.
- Ancora solo qualche passo
- verso la svolta, dove la strada
-
- è già tra nudi praticelli erti
- e ricciuti. A manca, contro il pendio,
- quasi fosse crollata la chiesa,
-
- si alza gremita di affreschi, azzurri,
- rossi, un’abside, pesta di volute
- lungo le cancellate cicatrici
-
- del crollo – da cui soltanto essa,
- l’immensa conchiglia, sia rimasta
- a spalancarsi contro il cielo.
-
- È lì, da oltre la valle, dal deserto,
- che prende a soffiare un’aria, lieve,
- disperata,
- che incendia la pelle di dolcezza…
-
- È come quegli odori che, dai campi
- bagnati di fresco, o dalle rive di un
- fiume,
- soffiano sulla città nei primi
-
- giorni di bel tempo: e tu
- non li riconosci, ma impazzito
- quasi di rimpianto, cerchi di capire
-
- se siano di un fuoco acceso sulla brina,
- oppure di uve o nespole perdute
- in qualche granaio intiepidito
-
- dal sole della stupenda mattina.
- Io grido di gioia, così ferito
- in fondo ai polmoni da quell’aria
-
- che come un tepore o una luce
- respiro guardando la vallata
|
- V
-
- Un po’ di pace basta a rivelare
- dentro il cuore l’angoscia,
- limpida, come il fondo del mare
-
- in un giorno di sole. Ne riconosci,
- senza provarlo, il male
- lì, nel tuo letto, petto, cosce
-
- e piedi abbandonati, quale
- un crocifisso – o quale Noè
- ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro
-
- dell’allegria dei figli, che
- su lui, i forti, i puri, si divertono…
- il giorno è ormai su di te,
-
- nella stanza come un leone dormente.
-
- Per quali strade il cuore
- si trova pieno, perfetto anche in questa
- mescolanza di beatitudine e dolore?
-
- Un po’ di pace… E in te ridesta
- è la guerra, è Dio. Si distendono
- appena le passioni, si chiude la fresca
-
- ferita appena, che già tu spendi
- l’anima, che pareva tutta spesa,
- in azioni di sogno che non rendono
-
- niente… Ecco, se acceso
- alla speranza – che, vecchio leone
- puzzolente di vodka, dall’offesa
-
- sua Russia giura Krusciov al mondo –
- ecco che tu ti accorgi che sogni.
- Sembra bruciare nel felice agosto
-
- di pace, ogni tua passione, ogni
- tuo interiore tormento,
- ogni tua ingenua vergogna
-
- di non essere – nel sentimento –
- al punto in cui il mondo si rinnova.
- Anzi, quel nuovo soffio di vento
-
- ti ricaccia indietro, dove
- ogni vento cade: e lì, tumore
- che si ricrea, ritrovi
-
- il vecchio crogiolo d’amore,
- il senso, lo spavento, la gioia.
- E proprio in quel sopore
-
- è la luce… in quella incoscienza
- d’infante, d’animale o ingenuo libertino
- è la purezza… i più eroici
-
- furori in quella fuga, il più divino
- sentimento in quel basso atto umano
- consumato nel sonno mattutino.
|
- VI
-
- Nella vampa abbandonata
- del sole mattutino – che riarde,
- ormai, radendo i cantieri, sugli infissi
-
- riscaldati – disperate
- vibrazioni raschiano il silenzio
- che perdutamente sa di vecchio latte,
-
- di piazzette vuote, d’innocenza.
- Già almeno dalle sette, quel vibrare
- cresce col sole. Povera presenza
-
- d’una dozzina d’anziani operai,
- con gli stracci e le canottiere arsi
- dal sudore, le cui voci rare,
-
- le cui lotte contro gli sparsi
- blocchi di fango, le colate di terra,
- sembrano in quel tremito disfarsi.
-
- Ma tra gli scoppi testardi della
- benna, che cieca sembra, cieca
- sgretola, cieca afferra,
-
- quasi non avesse meta,
- un urlo improvviso, umano,
- nasce, e a tratti si ripete,
-
- così pazzo di dolore, che, umano,
- subito non sembra più, e ridiventa
- morto stridore. Poi, piano,
-
- rinasce, nella luce violenta,
- tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
- urlo che solo chi è morente,
-
- nell’ultimo istante, può gettare
- in questo sole che crudele ancora splende
- già addolcito da un po’ d’aria di mare…
-
- A gridare è, straziata
- da mesi e anni di mattutini
- sudori – accompagnata
-
- dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
- la vecchia scavatrice: ma, insieme, il
- fresco
- sterro sconvolto, o, nel breve confine
-
- dell’orizzonte novecentesco,
- tutto il quartiere… È la città,
- sprofondata in un chiarore di festa,
-
- – è il mondo. Piange ciò che ha
- fine e ricomincia. Ciò che era
- area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
-
- cortile, bianco come cera,
- chiuso in un decoro ch’è rancore;
- ciò che era quasi una vecchia fiera
-
- di freschi intonachi sghembi al sole,
- e si fa nuovo isolato, brulicante
- in un ordine ch’è spento dolore.
-
- Piange ciò che muta, anche
- per farsi migliore. La luce
- del futuro non cessa un solo istante
-
- di ferirci: è qui, che brucia
- in ogni nostro atto quotidiano,
- angoscia anche nella fiducia
-
- che ci dà vita, nell’impeto gobettiano
- verso questi operai, che muti innalzano,
- nel rione dell’altro fronte umano,
-
- il loro rosso straccio di speranza.
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- 1956
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