Intervista a Fosco Giannini per “Resume, notizie dall’America e dal Terzo Mondo”

di Geraldina Colotti su http://www.cumpanis.net

D. Come riassumeresti il tuo percorso politico?

R. Alla fine degli anni ’70 ero un giovane militante del PCI, un partito che stava già vivendo profondissimi processi di involuzione e socialdemocratizzazione. Nella prima metà degli anni ‘80 facevo già parte di un’area interna al PCI che si batteva contro la fuoriuscita di questo partito dalla cultura e dalla prassi comuniste. Quest’area interna si organizzava attorno alla rivista nazionale “Interstampa”, della quale ero tra i più giovani redattori. I dirigenti nazionali che animavano la battaglia contro lo snaturamento socialdemocratico del PCI erano i compagni leninisti che erano stati legati al grande Pietro Secchia: Alessandro Vaia, Arnaldo Bera, Giuseppe Sacchi, Sergio Ricaldone e altri. L’area di “Interstampa” si batteva contro le scelte di Enrico Berlinguer e del gruppo dirigente del PCI a lui vicino dirette ad accettare la presenza dell’Italia nella NATO, a rompere con l’Unione Sovietica e il movimento comunista internazionale, a prendere le distanze dai partiti comunisti leninisti europei ( il PC Portoghese, il Partito Comunista di Grecia, l’Akel di Cipro, ad esempio) stringendo invece rapporti sempre più forti con le socialdemocrazie europee, con Olof Palme, Willy Brandt, con i socialisti spagnoli, greci, francesi e del Labour Party della Gran Bretagna. “Interstampa” si batteva contro il progetto berlingueriano dell’“eurocomunismo”. Un progetto pericoloso, poiché al di là del termine rassicurante e apparentemente neutro,  non parlava affatto dell’azione in Europa dei tre partiti guida dello stesso “eurocomunismo” – il PCI, il PC Francese e il  PC di Spagna – ma tendeva ad assumere, per il comunismo europeo, le caratteristiche tradizionalmente interclassiste della socialdemocrazia, si allontanava dall’Unione Sovietica e dal movimento comunista mondiale e – essenzialmente – cancellava dal proprio patrimonio politico e culturale il leninismo, e cioè la concezione del partito comunista rivoluzionario e d’avanguardia, l’abbattimento strategico dello Stato borghese, l’accettazione, di conseguenza, dell’elettoralismo e del parlamento democratico-borghese come ultimo orizzonte del cambiamento, sfociando, dunque, nella rinuncia alla presa del potere e al processo rivoluzionario. Un paradosso a pensarci ora, ora che siamo vicini al 100° anniversario della nascita del PCd’I ( 21 gennaio 1921) nato attraverso la scissione dal Partito Socialista Italiano proprio sulla questione della rivoluzione: il PSI, fortissimo in quei primi anni ’20, era contrario a mettersi alla testa della rivoluzione, mentre Gramsci, Togliatti, Terracini, Bordiga – i fondatori del PCd’I e del futuro PC -, affermavano che quello era il momento rivoluzionario, il momento dell’insurrezione e della violenza operaia rivoluzionaria e per quello rompono con i leaders italiani socialista della II Internazionale.

Per tornare a qualche mio accenno biografico: l’area di “Interstampa” sollecitava i giovani compagni a costituire ovunque, in tutta Italia, dei Centri Culturali, Centri che dopo lo snaturamento totale del PCI  avrebbero dovuto costituire la spina dorsale organizzativa del futuro Partito Comunista. Chi scrive era il segretario regionale delle Marche, del Centro Culturale “Antonio Pesenti” (Pesenti è stato uno dei più grandi economisti marxisti italiani).

Dopo lo scioglimento del PCI io fui uno dei giovani fondatori nazionali del Partito della Rifondazione Comunista, il PRC. Ma non passò molto tempo che, sotto la guida di Fausto Bertinotti, il PRC iniziò ad assumere una linea tendente alla fuoriuscita dalla cultura comunista. Nel PRC, passai all’opposizione di Bertinotti, assumendo la direzione della rivista internazionalista, antimperialista e leninista attorno alla quale si organizzava la grande area contraria al “bertinottismo”. Questa rivista si chiamava “l’Ernesto”, come Che Guevara, una rivista sulla quale scrissero i migliori intellettuali e dirigenti comunisti internazionali e italiani, dal Generale Giap a Domenico Losurdo. Nel 2006 sono stato eletto Senatore della Repubblica e ho avuto il ruolo di capogruppo nella Commissione Difesa al Senato.

La mia battaglia politica è poi sempre proseguita, e anche adesso lo è, nell’intento di unire in un unico partito i comunisti italiani, oggi particolarmente divisi e deboli.

D. Perché nasce Cumpanis e con quali obiettivi? Perché chiamarla così?

R. È vero, la caduta dell’Unione Sovietica, che con i suoi difetti e le sue contraddizioni rappresentava tuttavia una grande diga mondiale contro le pulsioni di dominio economico e di guerra dell’intero fronte imperialista ha, in prima battuta, fatto spostare a destra l’asse generale internazionale. Di questo generale spostamento a destra le prime “vittime” sono state le socialdemocrazie, specie europee, che in tempi brevissimi hanno assunto, nel nuovo spirito dei tempi, tutta la cultura politica liberista. Da ciò si spiegano le profonde  e generali involuzioni liberiste di partiti come il Labour Party di Tony Blair, delle forze “socialiste” francesi, greche, spagnole, tedesche e dello stesso, attuale, Partito Democratico italiano, tutto immerso nella cultura e nell’ideologia liberal-borghese, nel suo totale filoatlantismo e nella sua subordinazione agli USA, alla NATO, all’Ue e all’Euro ( significativa, da questo punto di vista, è la linea del PD completamente volta alla costruzione, sotto le direttive dell’asse imperialista franco-tedesco, dell’esercito europeo, che i comunisti debbono combattere per evitare che il polo neoimperialista europeo possa dotarsi di un esercito che non potrà che essere neo colonialista, subordinato alla NATO e diretto anche ad un’eventuale repressione antioperaia su scala europea). È dunque vero: le forze un tempo socialdemocratiche e ora liberiste non sono in grado di garantire nessuna alternativa e le esperienze politiche italiane del centro-sinistra e del centro-destra sono essenzialmente simili ed intercambiabili. Da ciò dovrebbero i comunisti trarre una lezione oggi centrale: con queste forze non si possono fare accordi, né elettorali né di governo, come fece nel 2006 il PRC di Bertinotti, andando al governo con il centro-sinistra di Romano Prodi e aprendo una crisi nel movimento comunista italiano dalla quale esso non è ancora uscito. Quali possono essere le leve per far riprendere il movimento di classe italiano? A breve non sarà facile. Occorre, con pazienza e senza scorciatoie istituzionaliste o innamoramenti col centro-sinistra, riconquistare la fiducia delle avanguardie operaie e intellettuali, riorganizzarsi e radicarsi di nuovo nei territori, mettere al centro le grandi lotte dimenticate contro la NATO e le gigantesche spese per il riarmo, le lotte contro i diktat durissimi dell’Ue, le lotte per il salario e per la riduzione secca dell’orario di lavoro come questione fondamentale per la lotta contro la disoccupazione di massa; la lotta per la difesa e il rilancio del welfare, la lotta, centrale, per una tassazione profonda sul grande capitale. Ma per tutto ciò occorreranno anni, dura è la riconquista della fiducia e dei legami di massa. Ma a questa linea di lotta, per i comunisti e per le forze di classe, non c’è alternativa…

D. In una certa sinistra, che pure si richiama al comunismo, ha preso piede una cultura della legalità borghese, permeata di dietrologia rispetto al conflitto armato degli anni ’70-80, che porta a identificarsi con la difesa dello Stato e dei suoi apparati repressivi, e non a comprendere e a risolvere con la lotta le contraddizioni di classe. Un esempio per tutti, l’antimafia. Una linea che, per il sud, preferisce spendere i soldi per magistrati e polizia e non per portare lavoro o costruire scuole: come se le economie illegali non fossero l’altra faccia dell’economia capitalistica, come se la lotta contro le mafie non derivasse dalla lotta contro il capitalismo. Quanto pesa su questa visione l’assenza di un bilancio dei tentativi rivoluzionari compiuti in Italia e in Europa nel secolo scorso? Come si riverbera la questione del bilancio nella rivista?

R. Quando, in una risposta precedente, ti parlavo del paradosso dato dal fatto che il PC’d’I di Gramsci e Togliatti nasce nel 1921 per la rivoluzione, mentre il PCI di Achille Occhetto muore (si uccide) per il rifiuto della rivoluzione (estremizzo) molto ti dico, credo, del cambiamento che vi è stato nel senso comune comunista italiano, sulla questione della rivoluzione. La santificazione delle istituzioni borghesi è stato l’approdo finale (e controrivoluzionario) di una lunga e lunghissima marcia politica sempre più socialdemocratica (che sfocia nel “compromesso storico” e poi nella “solidarietà nazionale” del Pci di Berlinguer) che ha contribuito a far pensare, a livello di massa, alla rivoluzione, alla rottura rivoluzionaria non come ad un atto storico razionale ed inevitabile per le classi sfruttate, ma, quasi in modo cattolico, ad una “colpa” della quale il movimento operaio, che doveva essere ormai tutto dedito ad ampliare il proprio consenso elettorale, non doveva macchiarsi. La rivoluzione, il suo essere questione strategia che deve sempre informare di sé la tattica, il leninismo segnano e segneranno il lavoro politico e teorico di “Cumpanis”.

D. Nel secolo attuale, in Italia e in Europa, i movimenti popolari che abbiamo visto sorgere hanno attinto a culture diverse da quella del comunismo storico novecentesco. Perché? Perché i comunisti non hanno saputo mettersi alla testa delle lotte, non hanno saputo farsi riconoscere dai movimenti popolari come i più conseguenti, sapendo rischiare, magari, anche qualche mese di galera? Perché, spesso, stanno più facilmente dalla parte dei “pompieri” che dei ribelli? Perché, per esempio, non riescono a intercettare quell’”umanismo radicale” che consentirebbe di smarcarsi sia dallo “scoutismo politico” che dalla visione moderata e stabilizzante dell’”unità a sinistra contro Salvini”?

 R. Vorrei intanto sottolineare un fatto, un fatto titanico che il mainstream capitalistico e occidentale dominante tende con tutte le proprie forze e con tutti i propri strumenti di disorientamento di massa a cancellare: il movimento comunista mondiale non è affatto in crisi o scomparso, come, appunto, la cultura, i media occidentali vogliono far credere. Il PC Cinese guida circa un quinto dell’intera umanità, la Repubblica Popolare Cinese, appunto; i partiti comunisti guidano Cuba, il Vietnam, il Sud Africa, sono forze decisive in Russia, in India e sorreggono le spinte rivoluzionarie di paesi importanti dell’America Latina, dal Venezuela al Brasile. E dobbiamo dirlo: il movimento comunista registra la sua più profonda crisi, in questa fase storica (salvo i partiti comunisti del Portogallo, della Grecia, dell’Akel di Cipro, della Repubblica Ceca) nell’area dell’Ue, non nel mondo! Dunque è qui, nell’Ue, che dobbiamo focalizzare la ricerca, capire i motivi di fondo della crisi comunista. Alla quale, certo, l’eurocomunismo non è estraneo, con la morte indotta del PCI, la grave crisi apertasi nel Partito Comunista di Spagna e in quella, meno drammatica, del Partito Comunista Francese. Cioè – PCI, PC di Spagna e PC Francese – le tre colonne dell’eurocomunismo. Per ciò che riguarda le attuali esperienze comuniste italiane, noi dobbiamo parlare oggi della loro estrema fragilità ( constatazione da cui “Cumpanis” parte per porre il problema dell’unità dei comunisti e dunque di una loro maggiore massa critica) ma dobbiamo anche dire che dagli attuali gruppi dirigenti di questi partiti comunisti italiani oggi non parte nessuna richiesta di alleanze di centro-sinistra per fronteggiare Salvini, anche se è ancora pericolosamente presente, all’interno di questi partiti, una spinta verso questa linea.

D. Per contrastare l’enfasi posta sui diritti civili a scapito dei diritti basici portata avanti da una certa sinistra light, assistiamo al ritorno di posizioni grossolane che, dai migranti alle questioni di genere, finiscono per assomigliare alla destra. Cos’hai da dire sul ritorno di un certo maschilismo? Non pensi che – come si evince, per esempio, nei paesi socialisti dell’America Latina, la questione di genere intersechi e qualifichi sia la lotta di classe che quella antimperialista e che la libertà delle donne sia una cartina di tornasole del livello di libertà esistente in una società?

R. È una domanda complessa, alla quale occorre rispondere con ordine e lucidità. Primo: nella sinistra europea ( e forse non solo europea) negli ultimi decenni abbiamo assistito ad uno strano (anzi,  solo apparentemente strano) fenomeno: mano a mano che nelle forze di sinistra ( a volte anche comuniste, basti pensare al PCI di Occhetto e al  PRC di Bertinotti) avanzavano processi di abbandono delle posizioni antimperialiste e di classe, il vuoto ideologico e politico lasciato veniva colmato da una sorta di surplus di politiche dei diritti civili. Io stesso ho vissuto un’esperienza forte, in questo senso: nel 2007, da senatore, mi battevo contro la presenza dell’esercito italiano in Afghanistan, mettendo, con questa mia posizione a rischio il governo Prodi, che al Senato aveva una maggioranza, sulle destre, di pochissimi voti. Ebbene, la deputata transgender del PRC Vladimir Luxuria, in una riunione congiunta dei gruppi del PRC del Senato e della  Camera, chiese la mia espulsione da Rifondazione per la battaglia che conducevo contro l’impegno italiano nella guerra imperialista in Afghanistan, e Luxuria motivava così la sua posizione: “Io ho rinunciato, per salvare il governo, alla mia battaglia per i diritti delle donne e dei trans a potersi fare gratuitamente il seno, mentre Giannini continua a mettere a rischio il governo Prodi con le sue posizioni sull’Afghanistan”. Credo sia un esempio calzante dello spostamento di questioni, valori e principi conseguente al “baratto” ideologico avvenuto in diverse forze di sinistra tra questioni di classe e diritti. Un altro esempio calzante è nella relazione che Occhetto svolse al Congresso di scioglimento del PCI, quando per la prima mezz’ora della sua relazione parlò dell’Amazzonia, e lo faceva mentre sopprimeva storicamente il più grande partito comunista al mondo non al potere. Vi è stato dunque, in forma massiccia, questo fenomeno: mentre molte forze di sinistra abbandonavano le posizioni di classe, assumevano in toto le questioni del femminismo, dell’ambiente e dei diritti sessuali. Credo, invece, che un comunista contemporaneo, e un partito comunista del presente, debba saper coniugare le questioni di classe con i diritti sociali, unendo la questione di classe e quella dei diritti civili in una sola linea politica e di lotta. È anche vero che vi è stata, come risposta alle sinistre che andavano sostituendo la questione di classe con i diritti civili, un atteggiamento di chiusura e persino di demonizzazione dei diritti: un errore anch’esso clamoroso. La questione della donna, ad esempio, è una questione ancora in gran parte insoluta, e lo si vede soprattutto nel mondo del lavoro, dove permane il fenomeno della sottosalarizzazione diffusa delle lavoratrici e il fenomeno della notevole differenza di carriere tra uomini e donne; ma lo si vede ancora nel mondo delle relazioni uomo-donna, nel quale persiste in larghissime aree sociali un feroce patriarcato e un senso del possesso maschile che porta ancora ad un terribile e vasto femminicidio. Anche per ciò che riguarda l’immigrazione si è manifestato un pericolo in quella sinistra stanca dell’enfasi dei diritti a scapito della questione di classe e in questa sinistra vi è stato e rimane il pericolo di imitazione (per il consenso elettorale) delle posizioni di destra. Ora, è anche vero, come ha asserito persino Papa Francesco, che “non tutta l’Africa potrà essere accolta, poiché ciò significherebbe perpetrare un inganno terribile contro gli immigrati, spostandoli da una povertà all’altra”. Tuttavia è chiaro che un partito comunista oggi, non può fare a meno, dopo aver chiarito che l’immigrazione è un fenomeno derivante dal potere imperialista, dai suoi saccheggi e dalle sue guerre, di avere una politica della solidarietà coi popoli immigrati. E soprattutto una politica di lotta diretta all’unione del proletariato italiano col proletariato dell’immigrazione, con un disegno strategico volto alla costruzione di un più vasto proletariato “bianco e nero” in senso anticapitalista, antimperialista e rivoluzionario. Diritti di cittadinanza, diritto del lavoro e diritto al voto da conquistare per il popolo degli immigrati non solo per solidarietà ma anche per costruire un più vasto fronte proletario di lotta.

D. La pandemia da covid-19 ha messo ancor più in evidenza la natura strutturale della crisi capitalista, l’insostenibilità di un modello che sta portando gli esseri umani e il pianeta verso la catastrofe. Quali sono le forze in grado di opporvisi a livello mondiale e con quali progetti?

R. Occorre innanzitutto, come tu dici, rimarcare chiaramente il fatto che non è stato il covid-19 la causa della nuova crisi economica mondiale. Questo è ciò che vuol far credere il sistema imperialista e capitalista mondiale, che non vuol accettare l’idea – che invece è sempre più chiara sul piano mondiale e storico – della propria, profonda crisi storica. Il covid-19 ha solo accelerato ed evidenziato una crisi che, già con i sub-prime americani (crisi conclusasi solo sette anni fa) si era manifestata con tutta la devastatrice virulenza internazionale. Quali sono oggi le forze che possono opporsi al dominio imperialista? A partire dalla totale materialità delle cose, non possono esservi dubbi a proposito: sono le forze internazionali che già, con al centro la Cina socialista, avevano dato vita ai BRICS e che ora, di nuovo, attorno alla Repubblica Popolare Cinese, vanno costituendo un nuovo e sempre più vasto fronte internazionale che se non è tutto socialista (e non lo è) è oggettivamente antimperialista. Non ci dice nulla, a proposito, la ferocia con la quale, ad ogni piè sospinto, sia gli USA di Trump che l’Ue franco-tedesca, attaccano la Cina e la Russia?

D. Le gabbie dei trattati internazionali con la loro segretezza, le imposizioni delle grandi istituzioni come la Nato e l’Unione Europea, la complicità della “sinistra” tradizionale e dei sindacati confederali hanno peggiorato ulteriormente le condizioni delle masse e complicato la possibilità di unire le lotte sotto una comune bandiera. Come si articola il dibattito su questi temi nella rivista? Su quali obiettivi sarebbe possibile ricostruire un nuovo internazionalismo?

R.  A partire da ciò che dicevi: prioritario è costruire un nuovo senso comune di massa che faccia propria sino in fondo la critica all’imperialismo USA e alla NATO, che rimane il vero e centrale dominus dell’intera vita politica italiana. Un esercito d’occupazione, la NATO, che non domina solo l’intero ambito militare, con le sue 130 basi, con i suoi circa 100 mila ufficiali e soldati USA in Italia,  ma che subordina a sé i servizi segreti italiani, l’esercito italiano, le forze dell’ordine italiane, il parlamento italiano, che mai può negare il voto favorevole alle guerre che vogliono gli USA e la NATO nel mondo. È così forte l’egemonia degli USA e del suo esercito invasore in Italia, la NATO, che questa “cultura” si espande e segna di sé sia i partiti di destra che quelli della sinistra moderata, sia i sindacati “normalizzati” ( tra cui gran parte della CGIL) che  tanti “movimenti” sociali e “pacifisti”. “Cumpanis” pone la questione della lotta contro l’egemonia USA e NATO come questione centrale, una lotta volta a far crollare le certezze filoamericane di massa che, con la stessa modalità, costruiscono sia il PD che la Lega di Salvini, sia le forze della sinistra moderata che il partito di estrema destra della Meloni, Fratelli d’Italia, tutte forze che corrono innanzitutto a Washington per farsi benedire e divenire partiti di governo.

D. Nato e Unione Europea sono strumenti di aggressione, pervasivi e sofisticati contro i popoli del sud globale, pur esistendo contraddizioni interne ai blocchi imperialisti nello specifico tra la UE e gli Stati Uniti. Qual è la tua analisi?

R. Ripeto ciò che ho già affermato: è chiaro che, all’interno del blocco imperialista esistano contraddizioni (le inevitabili contraddizioni interimperialistiche: ognuno cerca il proprio profitto); ma è altrettanto chiaro che sia la NATO che l’Ue siano gli strumenti unitari a difesa degli interessi generali dell’intero blocco imperialista. Sia il sud globale del mondo, così come lo chiami tu, che le classi lavoratrici interne al blocco imperialista, rimangono le grandi sacche dello sfruttamento imperialista, capitalista e neocolonialista: occorre che questo sfruttamento sia difeso innanzitutto col potere militare. Da qui la NATO, per tutte le forze imperialiste; ma da ciò anche l’esercito europeo, una nuova e pericolosa

à reazionaria che molti, anche a sinistra, anche tra i comunisti, non riconosco ancora come tale.

D. Cuba e il Venezuela sono più che mai nel mirino, concreto e simbolico, sia degli Stati Uniti e dei loro vassalli che dell’Unione Europea. A fronte della conclamata crisi della democrazia borghese, evidente a livello globale, i governi capitalisti stanno sabotando le prossime elezioni parlamentari del 6 dicembre in Venezuela proprio in nome della “democrazia”. Come lo spieghi?

R. Pensiamo all’annuncio della “fine della storia” proclamato, a nome dell’intero capitalismo mondiale, da Fukuyama dopo la caduta dell’URSS. Mai illusione è stata tanto idealistica quanto improvvida. Non erano passati che pochi anni da quella “ratifica” di fine della storia, che l’intera America Latina viene attraversata da una immensa pulsione rivoluzionaria e antimperialista: non solo Cuba resiste, ma il Venezuela di Chavez annuncia il socialismo e grandi trasformazioni prendono corpo in tanta parte dell’America Latina, dal Brasile di Lula all’Argentina, dalla Bolivia all’Equador. La grande liberazione antimperialista latinoamericana si incontra, in quegli anni successivi alla scomparsa dell’URSS, col titanico sviluppo economico, politico e sociale cinese, con i paesi dell’Africa che si liberano, con l’India, con la Russia, dando corpo non solo ai BRIC, ma ad un ben più vasto fronte antimperialista in progress ( per così dire) che cambia i rapporti di forza nel mondo tra forze imperialiste e antimperialiste, a favore di queste ultime. Agli occhi degli USA e del potere generale imperialista, la “colpa” dell’America Latina rivoluzionaria, nel favorire ed essere protagonista di tutto ciò è una colpa imperdonabile, proveniente per di più da un’area del mondo che gli USA consideravano e considerano un loro arto di casa. Per l’imperialismo questa colpa va pagata: da qui l’impegno nuovamente strenuo degli USA, dell’Ue e dell’intero fronte imperialista a “normalizzare” l’America Latina. Da qui i continui tentativi di golpe contro Chavez e Maduro, la ferocia contro Lula e contro ogni altro progetto di liberazione nazionale che in questi anni è avanzato in America Latina. È in questo contesto che persiste, anche in questa fase, l’impegno imperialista degli USA e dell’Ue, contro Cuba e il Venezuela. La colpa di essersi liberata e di aver offerto ai popoli del mondo la propria forza per liberarsi, in questi ultimi decenni, deve essere pagata. Così vuole Washington, così vuole Bruxelles, alla faccia della sinistra italiana europeista.

D. Dal Venezuela e da Cuba è partita la proposta di una nuova internazionale antimperialista e per l’unità dei popoli a livello globale. Come valuti questa proposta e quale può essere il compito della rivista per costruire un’agenda di lotta comune?

R. Credo francamente che oggi, nella fase alta dell’attacco imperialista e nella fase che vede il movimento comunista e antimperialista ancora così tanto diviso, la proposta avanzata da Cuba e dal Venezuela non può che essere positivamente accolta. E la redazione di “Cumpanis” sarebbe ben lieta di poter dare, con le sue forze, il proprio contributo al concretizzarsi del progetto.

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