La mostra di Delfina Tromboni

Nessuna delle strutture che composero la variegata galassia partigiana, né le Brigate, né le S.A.P., né i G.A.P., né i gruppi locali variamente denominati, avrebbero potuto nascere e vivere senza la partecipazione alla Resistenza, nelle sue varie forme, delle donne e delle ragazze.Donne in età (molte provenienti dall’antifascismo) e ragazze spesso giovanissime, che subito dopo l’armistizio avevano messo pressoché spontaneamente in atto la più importante forma di “Resistenza civile” non armata che si ricordi, accogliendo i soldati italiani lasciati allo sbando dagli alti Comandi militari e dalle discutibili scelte della Monarchia, si misero a disposizione del nascente movimento resistenziale espletando le più diverse funzioni.Le donne e le ragazze furono staffette portaordini e militari, trasportarono la stampa clandestina, le armi, gli esplosivi, i medicinali , i viveri, organizzarono le basi, i rifugi, l’assistenza alle famiglie degli incarcerati, dei rastrellati, dei deportati, i pronto soccorso per i feriti. In alcune località della città e della provincia si organizzarono in “Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”. Alcune impugnarono le armi e combatterono in prima persona, parteciparono all’organizzazione e alla realizzazione di disarmi e sabotaggi, nonché ai rastrellamenti di fascisti e tedeschi nei giorni della Liberazione, prelevarono e sorvegliarono ostaggi per scambiarli con prigionieri e prigioniere partigiani.Diverse di loro lasciarono il posto di lavoro o la famiglia ed entrarono in clandestinità, trasferendosi in Brigata.Nelle zone, come l’Argentano, in cui , settimane prima della fine della guerra, si organizzarono i “collettivi” per la lavorazione della terra e la ripresa della produzione, esse furono in prima fila nell’azione, essenziale a consentire alle popolazioni depredate dall’esercito tedesco in fuga di avere di che alimentarsi una volta crollato il fascismo repubblichino. Non avrebbe potuto essere diversamente, essendo gli uomini impegnati al fronte o nella guerra partigiana. Nelle zone, come il Bondenese e di nuovo l’Argentano, dove più forte fu l’azione partigiana tesa a suscitare proteste sociali contro il regime e contro la guerra, furono le donne ad animare gli scioperi agricoli, tra cui, nel 1944, quello delle mondine e quello detto “dei piselli” .Furono di nuovo loro ad organizzare l’assalto e l’occupazione del Municipio di Bondeno del 18 febbraio 1945: un’azione che tendeva a distruggere i registri di leva, strumento non solo della chiamata alle armi ma anche dell’individuazione dei ragazzi da rastrellare, nonché a mostrare la capacità del movimento partigiano ferrarese di preparare l’insurrezione.Proteste e manifestazioni annonarie si ebbero in diverse località, in città come a Comacchio o, di nuovo, a Bondeno. Anche qui non potevano essere che le donne a decidere di correre un rischio non indifferente, dato che su di loro era ricaduto in esclusiva il peso di garantire la sopravvivenza dei bambini, dei ragazzi e dei vecchi che la guerra non si era portati via.Furono infine le donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, a piangere i morti: quelli provocati dai bombardamenti come quelli provocati dai fascisti e dai nazisti.E alcune di loro conobbero anche la violenza: nelle carceri, nelle “camere di sicurezza” create ovunque dagli sgherri dell’Ufficio politico della Questura con a capo Carlo De Sanctis o dai “tupìn” di Carlo Tortonesi, negli uffici del fascio e delle Brigate Nere adibiti a luoghi di “interrogatorio” e tortura. Nemmeno la violenza dello stupro fu loro risparmiata. E oltre alle deportate razziali anche il Ferrarese ha contato le sue deportate politiche.

Se molte furono le funzioni svolte dalle donne della Resistenza, scarsi furono, nel dopoguerra, i riconoscimenti ufficiali loro attribuiti. Molto più che per i partigiani, fu difficile per le partigiane ottenerli, e più difficile ancora fu ottenere i “gradi” che si erano guadagnate combattendo il nemico a mano armata.I documenti conservati ora dal Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara testimoniano di quella difficoltà: molte sono le donne e le ragazze che presentarono istanza alla Commissione preposta e rimasero non riconosciute o qualificate ad un grado inferiore a quello che ritenevano di meritare.Forse ancora di più quelle che, grazie ad una raccolta di interviste organizzata nel 50° della Liberazione, risultarono aver partecipato fattivamente alla Resistenza, senza che questo inducesse loro stesse o i loro compagni di lotta a richiedere, anche per esse, il giusto riconoscimento. Le fonti “ufficiali” raccontavano dunque una storia diversa da quella che le donne con le loro testimonianze ci hanno fin da allora consentito di conoscere. Valutati in circa 3000 i ferraresi impegnati nella provincia o in altre formazioni esterne ed estere, le donne risultavano essere appena 153. Quelle operanti nel territorio ferrarese si riducevano a 129. Su 434 caduti, 6 donne. Su 171 feriti, 4 donne. Nessuna tra i 15 decorati alla memoria. Nessuna tra i 10 decorati ancora viventi all’epoca. Soltanto una croce al merito di guerra e una croce al valor militare. Nel paziente e approfondito lavoro iniziato allora – parliamo del 1995 – non solo sui documenti ma, appunto, utilizzando le testimonianze dirette, arrivammo ad oltre 300 donne impegnate nella Resistenza ferrarese: un numero che subito ci parve ancora lontano dall’essere, in quanto a completezza, vicino alla realtà.Ed infatti oggi, per questo piccolo progetto riproposto in facebook, le figlie e le nipoti delle antiche “resistenti” si stanno facendo vive. E’ così che abbiamo conosciuto la storia di Faustina Menegatti di Casaglia che nascondeva volantini e giornali clandestini nel tubo della bicicletta e, come scrive la nipote Cristina Marescotti “mi diceva con un brillio nello sguardo: “quella bicicletta ha portato il peso del mondo rendendo possibile la libertà, io ho solo pedalato”. Oppure la storia di Maria Grandi che – come racconta la nuora Manuela Tagliatti – trasportava i volantini per il fratello Fernando, trucidato dietro il Cimitero di Poggio Renatico. O, ancora, quella di Ladina Zucchini di Pontelagoscuro, operaia alla Zenith, che – come scrive la figlia Cinzia Patracchini – era schiva nel parlare di sé, ma conservava come reliquie due tessere dell’ANPI con i timbri della 35° Brigata Rizzieri, riconosciuta sì, ma come Patriota.Conto sul fatto che continuino ad arrivare racconti e fotografie : potrebbe nascerne un nuovo progetto, piccolo ma affettuoso e grato.