continua la Mostra di Delfina Tromboni

La “doppia Resistenza”.
“Già un altro, in sezione, un giorno disse che le donne avevano fatto le cose da incoscienti. Io mi rivoltai come una gatta. Incoscienza!-dissi- Io lo sapevo, sai, a cosa andavo incontro, cosa rischiavo, cosa facevo, e soprattutto dopo che mi hanno sparato. Ma sapevo che tu avevi bisogno di cibo, di roba da vestirti. Tutti quelli che non volevano combattere per Mussolini, i renitenti, si sono nascosto nelle buche di podere di confine. Era un quadrato e sotto era tutto scavato e all’ultimo filare c’era il coperchio per entrare. Era ben nascosto, tanto che anch’io se non contavo i filari rischiavo di sbagliarmi. Io dovevo portare da mangiare e cercavo di consolarli, perché erano stanchi.Io non ho mai combattuto, però mi hanno sparato, una volta, i tedeschi. C’era il canale Naviglio che aveva da una parte i partigiani e dall’altra i tedeschi. Io stavo passando e avevo nella sporta degli otturatori per mitra che dovevo portare proprio nella casa assediata. Non potevo andare né avanti né indietro. Ho proseguito e sono stata fortunata, ho depositato la mia roba e sono fuggita subito.I tedeschi erano appostati sotto un ponte, ho visto le pallottole e il fumo vicino al selciato della strada. Riuscii a scappare e via, via! E ho fatto da Taglio Corelli ad Alfonsine piangendo e giurando di no prestarmi più.Ma poi il giorno dopo c’era da andare da un’altra parte, e allora…”Passi tratti dalla testimonianza di Afra Gennari, di Anita ,una località dell’Argentano al confine tra Ferrara e Ravenna, dove il fronte restò fermo sei mesi. Nel 1943 aveva 24 anni. Riconosciuta partigiana combattente, Afra è stata intervistata nel 1995 nell’ambito del progetto da cui è nato il libro “Con animo di donna. L’esperienza della guerra e della Resistenza. Narrazione e memoria” da me curato nel 50° anniversario della Liberazione. Abbiamo intitolato il capitolo a lei dedicato “La doppia Resistenza” per esplicitare che per tante donne le Resistenze che dovettero combattere furono almeno due: quella contro i nazi fascisti tra il 1943 ed il 1945 e quella contro il maschilismo nelle interpretazioni post belliche di ciò che esse avevano fatto.Per dirla con un’altra partigiana riconosciuta come combattente, Nives Gessi, originaria di Argenta, staffetta del CUMER (Comando Militare Unico per l’Emilia Romagna) e membro della 7° GAP di Bologna:“Sarebbe stata cosa così ampia e aggressiva la Resistenza se la maggioranza delle donne avesse guardato alla Resistenza non come cosa loro, ma come ad una cosa da cui tener lontano i figli e il marito, invece di sostenerli come invece è avvenuto?” Nives, che nel 1943 aveva 19 anni, è stata intervistata nel 1974 e nel 1988. La sua seconda testimonianza è stata pubblicata, in occasione della sua scomparsa, dalla rivista della Libreria delle donne di Milano, “Via Dogana”, con il titolo “Nives la possenta”.

Resistenze.
I “numeri” delle donne e delle ragazze che presero parte alla Resistenza meritano ancora oggi un approfondimento: basti pensare che un documento del Comando Gruppo Brigate ferraresi stilato tra il 1945 e il 1946 annovera soltanto 7 donne tra i componenti dei comandi dei vari raggruppamenti partigiani della provincia: Giuseppina Ghedini, Giselda Fozzato, Giuseppina Mazzini, Clara Dragoni, Zaima Zamboni, Rosina Natali, Renata Viganò. Analogo ragionamento va fatto su quali forme di lotta, quali funzioni, nel tempo furono valutate come atti di vera e propria Resistenza.Tra il 1943 ed il 1945 si ebbero, infatti, diverse “Resistenze”.Ci aiuta ad inquadrare meglio la questione il ricorso che alcune partigiane presentarono alle Commissioni addette al riconoscimento delle qualifiche e dei gradi partigiani.Partiamo da Bianca Balboni, ragioniera, inizialmente riconosciuta come “benemerita” , che chiede di essere annoverata almeno fra le “patriote”. Con la sorella Maria Luisa, la cognata Luisa Gallotti sposata Balboni, Estilde Vancini sposata Sani, Aldina Vecchi “ed altre signore e signorine” , durante la Resistenza svolge funzioni di staffetta, ospita riunioni clandestine nella sua casa di via Vittoria e nei giorni della Liberazione, insieme alla sorella capoinfermiera del “Lazzaretto di via Mortara”, è responsabile dell’assistenza ai feriti. Assistere i feriti nei giorni della Liberazione , quando le strade di Ferrara si fanno teatro di scontri a fuoco tra partigiani e nazifascisti in fuga, significa di fatto essere in prima linea, anche se Ferrara non conobbe l’epopea di altre città. E la prima linea è letale anche per le donne. Tant’è che una di loro, Albina Bonora (la cui fotografia compare in uno dei pannelli che andiamo pubblicando qui), fu uccisa mentre rientrava dal lavoro il 24 di aprile, quando ormai gli Alleati stavano entrando in città.Ciò che gioca a sfavore di Bianca, si deduce dal tono della sua richiesta di riconoscimento presentata nel 1950, pare essere il breve periodo che la vide nelle file partigiane, sei mesi. Di più dovette pesare però l’abitudine invalsa all’epoca di considerare le donne impegnate in mansioni sanitarie come “non combattenti”. Le infermiere militari, scrive una studiosa insigne come Jean Bethke Elshtain, erano considerate “angeli di compassione”.Può un angelo fare il partigiano?Il “breve periodo” di attività non può essere assunto come pretesto nel caso di Dera Bedeschi, la cui fotografia compare anch’essa in un pannello della nostra mostra. Levatrice, opera nelle Valli dell’Argentano fin dall’armistizio (8 settembre 1943) e nel 1947 si decide a presentare ricorso per essere stata riconosciuta inizialmente soltanto come “patriota”:“Mi adoperai attivamente per collaborare con il gruppo femminile dell’assistenza ai militari sbandati, recuperavo lana ed indumenti vari da confezionare, procuravo, data la professione di ostetrica, medicinali ed altro materiale sanitario che passavo poi alla capogruppo Natali Rosina, prestavo inoltre la mia assistenza sanitaria al gruppo gappisti di Filo d’Argenta”.Nel ricorso Dera non specifica che come staffetta trasportava anche armi ed era addetta al Servizio informazioni. Forse le sembrò che operare sulla linea del fronte (quello che sostò per sei mesi tra le Valli argentane e comacchiesi e la Romagna)fosse sufficiente a farne una “combattente”.Forse, a determinare la sua prudenza fu anche l’inizio precoce dei processi agli ex partigiani, messi sotto accusa non solo per gli omicidi post bellici ma anche per azioni compiute durante la guerra di Liberazione.Per Dera, in ogni caso, appare chiaro che fu proprio la non dichiarata contiguità con le armi a determinare il suo “declassamento”.Bianca e Dera, tuttavia, sono tra quante i ricorsi li presentarono. Tante altre non lo fecero se non molto più tardi, ragionando forse come Ercolina Curarati che lo presentò soltanto nel 1952:“Non ho fatto mai la domanda prima essendo donna e non esperta”.La “doppia Resistenza” di cui abbiamo parlato in un post precedente si manifesta anche così: nella sottovalutazione delle tante “Resistenze” delle donne.