Volti di donne della Resistenza ferrarese: Partigiane 19. 20. 21. 22.

continua la Mostra di Delfina Tromboni

Stereotipi.

“La rappresentazione maschile delle donne in guerra durante la seconda guerra mondiale e la resistenza non esce, nel Ferrarese, dai canoni più tradizionali, riproponendo fondamentalmente il <<mito tutto maschile>> della mater dolorosa, il cui dolore è per lo più <<passivo, contemplativo, nè potrebbe essere diversamente>>, per dirla con la storica Anna Bravo. Niente a che vedere, per esempio, con la rappresentazione bolognese di cui parla un’altra storica, Patrizia Dogliani, in cui la figura femminile mostra <<un ruolo attivo e partecipativo, che abbandona il comune cliché presente ovunque, in Italia come all’estero (persino nella monumentalistica socialista russa, come a Pietroburgo) della Pietà, della sofferenza materna, familiare, patriottica>>. Niente a che vedere, anche, con la rappresentazione della assunzione di responsabilità femminile durante la guerra civile che ci ha offerto per il Ferrarese quello che poi sarebbe diventato il romanzo-simbolo delle donne nella resistenza: L’Agnese va a morire di Renata Viganò, dove il mito della passività delle donne in guerra è sbriciolato nella speculare descrizione della contrapposizione tra donne nel far fronte agli eventi: una contrapposizione segnata dalla scelta di una appartenenza che si dipana ogni giorno, nelle decisioni quotidiane della vita, fino alle conseguenze estreme, l’unico momento in cui la sorte di Agnese e di Minghina e delle sue figlie appare segnata dalla stessa mano: sono i tedeschi a trucidare Agnese nell’ultima pagina del libro, sono i tedeschi ad ammazzare Minghina e le sue figlie nella rappresaglia cieca che segna uno dei passaggi più drammatici del romanzo. Ma fino alla morte dell’una e delle altre è nel registro del quotidiano, lontanissimo dalla dimensione dell’eroico, che si consumano le decisioni che queste donne assumono:<<Avevano paura – scrive Viganò – La Minghina e le figlie per se stesse, l’Agnese per i compagni. Se ne servivano dandosi a vicenda le notizie che facevano dispiacere, che rammentavano a ciascuna di essere in potere dell’altra. Dietro la Minghina c’erano i fascisti, dietro l’Agnese i partigiani: tiravano ognuna dalla sua parte la corda tesa della minaccia>>.Pur con qualche ambiguità (la paura di Agnese appare generosa, quella di Minghina egoistica) Viganò aveva già scelto, nel 1949, di uscire dalla rappresentazione tutta maschile di figure femminili prigioniere di panie improprie: le sue donne sono soggetti capaci di operare scelte e pagarne le conseguenze e il loro dolore è quanto di più lontano si possa pensare dal modello passivo della Mater dolorosa privilegiato dall’una e dall’altra delle parti in lotta. La rappresentazione maschile che abbiamo appena descritto – una rappresentazione che si prolunga e si ripete nel tempo con una ciclicità riduttiva e costringente – consente peraltro di esaltare sì, ma per contrasto e quindi costringendola nell’ambito della eccezionalità, la figura della resistente, che mai come in questo caso assume l’essenza della figura retorica. La ripetizione della passività della mater dolorosa finisce cioè per costruire un’altra stereotipia, che ha anch’essa la fissità e la funzione costitutiva di identità dei simboli archetipici : quella dell’ eroina , una figura rassicurante che non scalfisce il modello perché non può, per sua intrinseca natura, raffigurare la norma” . Tratto da: Delfina Tromboni (a cura), “L’idea femminile della libertà. 45 donne raccontano la ‘loro’ Resistenza”, Introduzione a “Con animo di donna. L’esperienza della guerra e della Resistenza. Narrazione e memoria”, Archivio Storico dell’UDI, Ferrara, 1998

Stereotipi 2: la moglie.

Carolina Storari, sposata ad Otello Putinati – amato capo partigiano e nel dopoguerra dirigente del movimento dei lavoratori – può essere considerata la moglie per eccellenza del perseguitato politico: madre di numerosa prole, resta sola con i figli e gli anziani genitori durante i lunghissimi anni – dodici in tutto – in cui il marito resta nelle carceri fasciste ed anche durante la Resistenza, negli anni della clandestinità. In una intervista rilasciata negli anni ‘70 racconta che il marito, appena uscito di prigione ( e quindi impossibilitato a muoversi liberamente perché sottoposto a sorveglianza) la informa sullo stato dell’organizzazione clandestina con l’intento di insegnarle come fare da tramite tra lui ed i compagni:<< Quando lui è venuto fuori di galera, diceva: tò mo’, questa è l’organizzazione … e io: ‘sai dove sono arrivata? sono arrivata al di là della ferrovia di Via Bologna, più in là non sono capace di arrivare’. Mi ero trovata con Magri, ho rintracciato Ferrari […] mio cugino Mistroni, Renato, e poi ne avevo iscritti alcuni […] e allora quando veniva a casa dalla prigione io dicevo: ‘tò mo’, più di così non sono capace di andare avanti’. E lui mi diceva: ‘Benedetta, come sono idiota!’ …>>Il passaggio è esemplare di una situazione che senz’altro si ripeté nelle esperienze di altre donne e che per la stessa Carolina si ripeté nel tempo: in tutta la sua testimonianza c’è il continuo rimando tra l’immagine che gli uomini avevano di lei – fossero della sua parte o della parte avversa – e quello che lei invece racconta di essere stata. Il suo racconto è assolutamente privo di vittimismo, è anzi fortemente ironico ed assume spesso il tono della sfida: il registro ironico è la modalità che ha scelto per mostrare la dabbenaggine maschile che non sa andare oltre lo stereotipo della donna debole, o ingenua, o fedifraga:<< Un bel giorno […] mi viene la questura: <<Cosa volete?>> – <<Dov’è Putinati?>> – <<Dov’è? ma io non lo so … >> – <<Come non lo sa?>> – <<Bhè? Non vorrà che io stia dietro a mio marito, dove va, cosa fa … Sono interessi che a me non mi riguardano>><< Ma perché lo cercate?>> – <<Perché lo dobbiamo arrestare>> – <<Bhè – dico – così uno in meno a mangiare …>> – <<Ma guarda come se ne frega!>><<Allora>> dice [il questurino che la interroga dopo averla arrestata]: <<Adesso è tardi, è quasi l’una dopo mezzanotte>> poi dice: <<lei mi deve dire questa fila di fotografie se li conosce>>. Dico: <<neanche una, ci guardo, mai visti, non li conosco mica, io>>. <<Questo qui?! questo qui non lo conosce?!>>. Era mio fratello, quello che era in Francia. <<Mai visto>>. Dice: <<Torna a ripassarle>>. Dico: <<Eh, boia! non me la fai mica a me …>> Quando sono arrivata a mio fratello dico: <<Scusi sa, non ci vedo mica tanto, ci vedo poco, tutte le lacrime che mi avete fatto fare, ho perso la vista per colpa del fascio e per colpa di tutto il resto della buona gente che vuol bene a mio marito …>><<Così dico: <<Adesso vado in questura>>. Ero incinta. L’avevano portato in carcere a Bologna per il processo e poi l’hanno mandato al Tribunale Speciale a Roma … ne ha fatte delle carceri … Dice: <<Chi è lei?>> Dico: <<Sono la moglie di Otello Putinati>>. <<Ah! lei è la moglie di Putinati Otello! Sa cos’è suo marito? un sovversivo!>>. <<Cos’ha detto? Un sovversivo? Ma cosa vuol dire un sovversivo? Non so niente, io …>> Dice: <<Questo abbiamo trovato in casa sua!>> e mi fa vedere quei quattro, cinque giornali. <<Questo? Eh! la madonna! se credevo che avesse rubato un sacco di polli!!!>>Tratto da: Delfina Tromboni (a cura), “L’idea femminile della libertà. 45 donne raccontano la ‘loro’ Resistenza”, in: “Con animo di donna. L’esperienza della guerra e della Resistenza. Narrazione e memoria”, Archivio Storico dell’UDI, Ferrara, 1998.

Una moglie in carne ed ossa.

Quando la intervisto Maria Simoni, arrivata a Comacchio per matrimonio, è la vedova di un caduto partigiano, Giuseppe Ghirardelli, assassinato il 29 gennaio 1945 dopo lunghe torture. Dell’attività partigiana del marito sa poco o nulla, tende anzi a negarla descrivendolo come un uomo totalmente dedito al suo lavoro e alla sua famiglia, incapace di fare alcunché di male (<<Fra mio marito e il pane non c’era nessuna differenza, mio marito era buono come il pane>>) che potesse giustificare la <<spiata>> che lo portò alla morte. Il mondo di Maria non prevede che un interesse di parte lontanissimo dal suo modo di essere possa indurre al tradimento di un amico, né che una vita dedicata al lavoro e alla famiglia possa essere travolta dalla illogica ferocia di una guerra che trasforma in delitto perseguibile con la morte l’aver ospitato e rifocillato per una notte due <<stranieri>> affamati e laceri, vestiti con abiti di recupero. Ma è soprattutto il racconto di come lei – giovane donna con due bambini ancora piccoli – ha cercato di proteggere il marito e poi, una volta arrestato, di ottenerne la liberazione insieme alle altre donne del paese che avevano avuto i propri uomini rastrellati, offrendogli l’ultimo gesto di una pìetas antica che la vede introdursi di nascosto nel cimitero per vegliarne la salma, a darci la dimensione di una modalità del vivere che recupera come elementi di forza gesti, funzioni, ruoli del femminile capaci di arginare la disperazione (<<Il Signore doveva permettere che fossi impiccata anch’io con lui>>) e di consentirsi anche gesti di ribellione e di disprezzo, come sputare ogni volta sulla tomba dell’uomo che considera responsabile della morte del marito:<<Noi alle 11 eravamo a letto e sentiamo bussare alla porta, allora io dico: <<Bussano>>, allora lui fa per saltar giù, dice: <<Vado a vedere, Maria>> <<No, tu stai a letto – dico – ci vado io>> […] <<Allora, Maria, andiamo ad aprire, cosa dobbiamo fare?>>, in modo che ci siamo alzati tutti e due e allora mio marito va alla porta per aprire lui, e io invece <<No, no, non voglio – dico – vado ad aprire io>>.Fatti entrare tre uomini, uno del luogo e due aviatori (<<uno inglese e uno americano, mi sembra che fossero>>) Maria si dà da fare per sfamarli ed anche per farli sentire <<a casa>>:<<E allora, era il tempo dell’uva, allora io gli do un bel piatto d’uva, taglio del salame, del prosciutto, gli do un bel piatto e mangiano … stiamo lì un bel pezzo, parliamo , di dove sono, di dove vengono […] io avevo un pane o due, glieli ho dati […] si sono messi a tavola ancora e hanno bevuto [e il mattino dopo] gli do il catino, perché allora non c’era il bagno, e si lavano, si sono lavati e io gli favorisco se vogliono un caffè […] e gli ho insegnato la strada più <<circondaria>>, più nascosta, perché mio marito appena alzato è andato in campagna a lavorare, e allora io gli ho insegnato>>.Diversi mesi dopo<<Eravamo sfollati in Seminario, in Seminario, eh? – sottolinea facendo intendere che la sacralità del luogo non avrebbe dovuto consentire tanta efferatezza – E allora sentiamo bussare e allora c’era anche un’altra famiglia anche lei sfollata, sempre di campagna, no? E allora io non voglio andare ad aprire, perché sapevamo che erano fascisti […] Di modo che e bussa e bussa e bussa, una – si chiamava Clementa, questa donna – <<Andate ad aprire voi, Clementa>> <<Ah, bhè …>> Allora dico: <<Andateci voi, Teresina>> <<No, non ci vado>> Dico <<Ci andrò io, eh!>> E allora ci sono andata io>>.Il marito è portato in caserma e la mattina dopo <<Oh, Dio, Madonna! Mi prendo su io e … e Angelino, che aveva tredici anni, benedetto!, a mano, via piangendo per la piazza, cosa dovevo fare? […] In modo che dopo io, la Regia di <<Gallo>>, tanta gente, andiamo vicino alla caserma, vicino alla caserma, fuori dalla caserma, proprio in strada … C’erano i militi fascisti che non volevano che fossimo andati dentro, ma noi tanto insistenti, noi facevamo anche le cattive, dopo, contro i fascisti, e allora dicono: <<E allora venite dentro>>. E allora ci hanno fatto avvicinare alla porta della caserma, ma dentro non volevano che fossimo andate. <<Noi vogliamo vedere i nostri mariti, noi vogliamo vedere i nostri uomini, cos’hanno fatto?>> In modo già che abbiamo vinto noi, e ci hanno fatto andare su; ma ad ogni gradino c’era un tedesco e un fascista, un tedesco e un fascista […] E allora mi hanno fatto andar dentro, e allora c’era Giuseppe, <<Bugio>> e la moglie di <<Sentinella>>, la signora <<Mèna>> […] E un tedesco fa [un gesto] come per dire <<Non avvicinatevi>> … <<No? E’ mio marito!>>.>>Anche i giorni seguenti le madri, le mogli, le sorelle degli arrestati stazionano fuori della caserma, senza sapere che i loro cari sono già stati uccisi; alcune di loro sono andate anche in Comune , dall’ <<Autorità>> a chieder notizie, ma si arriverà fino al tre febbraio perché Maria apprenda, dal suo parroco Don Vito e dal suo Vescovo Mons. Babini, che Giuseppe è stato fucilato quattro sere prima e che i colpi di mitra che aveva sentito mentre con le altre donne stazionava fuori della caserma erano quelli destinati a suo marito.

Sorelle in carne ed ossa.

Di poco diversa da quella di Maria Simoni raccontata nel precedente post, é la vicenda di Ida e Filippa Farinelli, sorelle di un altro fucilato comacchiese, Giovanni. Le due sorelle parlano insieme, spesso nella registrazione le voci si sovrappongono per cui non è facile distinguerle l’una dall’altra e la ragazza di Comacchio che gentilmente anni fa la trascrisse le indica con “F” e “FF”. Racconta dunque una di loro:“Noi eravamo in cinque fratelli, uno dei quali era militare e non é più tornato dalla guerra, è nella lista dei dispersi, Farinelli Giordano. Mio padre faceva il mercante con la sua piccola bilancia e un cassettino e anche gli altri miei fratelli facevano quel mestiere lì…mio fratello, quello che hanno fucilato, aveva molto paura delle bombe e degli aerei, dormiva in una casetta che si vede da qui. E se non fosse stato per un vicino di casa, “Ciarsèn”, quello che si è impiccato, che ha fatto la spia, mio fratello non l’avrebbero trovato…”Portato via e chiuso Giovanni in una camera di detenzione nella caserma della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), Ida e Filippa si rendono conto che qualcosa di grave doveva essere successo perché viene loro impedito di consegnargli personalmente il pasto giornaliero che gli portavano:“In caserma all’epoca erano in 13 e io andavo qualche volta a portare da mangiare a mio fratello. Gli portai la sfoglia che mia mamma aveva fatto la sera prima, ma la sentinella mi chiese il nome e mi disse di appoggiare la roba su una mensola […] poi capii che era perché lo avevano già fucilato”. Per due giorni la trattoria che Ida e Filippa gestiscono insieme ai fratelli, come tutte quelle del paese, resta chiusa per ordine delle autorità, che con tutta evidenza vogliono evitare che, alla notizia dell’esecuzione dei partigiani arrestati, scoppino disordini. Avvertite dagli operai che lavoravano nelle saline che una barca aveva trasportato i corpi dei fucilati attraverso il canale che divideva la caserma dal cimitero (“Li avevano fucilati la sera e la mattina li avevano portati via”), Ida e Filippa subiscono l’ultimo affronto dal segretario comunale, che legge loro la dichiarazione di morte “con molta indifferenza. Noi lo offendemmo, gli dissi che era un vigliacco, tanto che un tedesco voleva picchiarmi…Poi ci mandarono fuori, me e mia sorella, con una spinta…”. Non resta che il gesto dell’estrema pietà, la veglia ai corpi dei propri cari. Così lo restituisce Maria Simoni:“Allora, io, la mamma e una sorella di mio marito siamo andate al cimitero. ‘Se ci trovano i tedeschi, ci picchieranno’… Siamo andate al cimitero e i corpi erano in tre bare in una camera mortuaria. La più forte era mia suocera, che faceva coraggio anche a me”. Rielaborazione da: “La Brigata ombra. La Resistenza nelle valli di Comacchio”, dattiloscritto elaborato da Delfina Tromboni nel 1989 ed integrato dal Segretario dell’ANPI di Comacchio, Vincenzino Folegatti, nel 2016. Il dattiloscritto è reperibile nella sede dell’ANPI comacchiese; Delfina Tromboni (a cura), “L’idea femminile della libertà. 45 donne raccontano la ‘loro’ Resistenza”, in: “Con animo di donna. L’esperienza della guerra e della Resistenza. Narrazione e memoria”, Archivio Storico dell’UDI, Ferrara, 1998

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