continua la mostra di Delfina Tromboni
Deportate 1.
Gina Finzi, deportata a Ravensbruck. La notte del 15 novembre 1943, dopo il ritrovamento del corpo del gerarca fascista Igino Ghisellini, ucciso in un’imboscata, le squadracce fasciste di Ferrara rastrellano casa per casa ebrei e sospetti antifascisti. La famiglia Schönheit viene svegliata alle due del mattino dai colpi assestati alla porta con il calcio dei mitra. Carlo Schönheit, il capofamiglia, viene arrestato. Di mestiere fa il commesso viaggiatore per aziende produttrici di calze, pigiami e biancheria. La moglie, Gina Finzi, in seguito alle leggi razziali del 1938 che proibivano agli ebrei di frequentare la scuola pubblica, insegna nella scuola elementare ebraica di via Vignatagliata. La mattina dopo l’arresto, insieme al figlio Franco, di 16 anni, va a far visita a Carlo nel carcere, dove diverse decine di persone sono ammassate sotto la sorveglianza di fascisti armati. Si adopera subito per farlo liberare, facendo leva sul fatto che sua madre e sua suocera sono di religione cattolica. Anche l’Arcivescovo di Ferrara interviene in tal senso presso le autorità e a metà gennaio Carlo Schönheit è libero, anche se non può lasciare Ferrara, pena immaginabili ritorsioni contro la sua famiglia.Il 25 febbraio 1944 Gina, con il marito ed il figlio, viene rinchiusa nella vecchia sinagoga di via Mazzini, saccheggiata dai fascisti nel 1941. Il giorno dopo è costretta a salire su un treno diretto al campo di concentramento di Fossoli (Modena). Gli Schönheit riescono a restare in questo campo fino ad agosto: essendo di “sangue misto”, come allora si diceva, possono ritardare il tragico destino che li attende rimanendo a lavorare nell’amministrazione del campo, cui spetta l’organizzazione delle deportazioni. Ma dopo l’attentato ad Hitler del 20 luglio 1944, i nazisti ricevono l’ordine di ripulire completamente il campo e il 2 agosto gli Schönheit partono con il convoglio n.16. A Norimberga, la famiglia viene separata: la madre Gina è inviata a Ravensbrük, Carlo e Franco Schönheit a Buchenwald.A Ravensbruck Gina Finzi verrà marchiata con il numero 49547.Viene liberata il 2 maggio 1945.Padre e figlio fanno ritorno a Ferrara il 27 giugno 1945. La loro casa, sopra la scuola ebraica, è saccheggiata e devastata. Vengono quindi accolti in casa della famiglia di un altro ebreo, famoso bibliofilo, Renzo Bonfiglioli, e qui apprendono che Gina era ancora viva alla vigilia della liberazione di Ravensbück, quando le deportate furono costrette dai nazisti alle marce forzate, che seminarono altra morte. La sera del 30 agosto 1945, mentre Franco sta studiando per l’esame di maturità, Gina torna a casa, denutrita ma viva. La sua è’ forse l’unica famiglia ebrea italiana i cui componenti sono scampati tutti alla deportazione.Diversa invece la sorte della sorella di Gina, Wilma Finzi, trucidata ad Auschwitz.Gina Finzi sarà riconosciuta partigiana combattente.Le notizie qui riportate sono tratte dal testo che lo studioso Edoardo Moretti ha scritto per il sito MuseoFerrara, istituito nel 2015 dall’Amministrazione comunale della città, da me rielaborate ed integrate con i dati pubblicati in: “Il libro della memoria : gli ebrei deportati dall’Italia, 1943-1945”, a cura di Liliana Picciotto, Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, 2002.

Deportate 2.
“Io vengo dalla tomba…”Sono stata prima nel campo centrale di smistamento di Ravensbruk, c’era di tutto lì, gli ebrei, c’era un baraccone di ebrei, in una settimana li hanno fatti fuori tutti, passati per la camera a gas e bruciati, c’eran tre o quattro forni in quel campo lì. D’al-tronde era una cosa bella bruciarli, perché dove la mettevano tutta questa gente, ci voleva tutta la Germania a seppellirli. Dice: li hanno bruciati, ma bisogna guardare il perché, il perché… bruciarli morti, veramente morti, ma lì li bruciavano che erano ancora non morti, li buttavano dentro, li ho visti coi miei occhi ed erano dei nostri compagni che dovevano far quel la-voro lì, prendere i suoi compagni prigionieri e buttarli dentro. … Insomma, ho visto delle cose che ho pensato: io vivrò poco, invece sono tornata, sono tutta scassata, però … Sono ar¬rivata lì, sono andata in Germania, non posso stare a dire quello che è successo perché ce n’è da dire non per un’ora, ce n’è per settimane, mesi, se uno vuole… A Ravensbruk sono stata lì in quarantena, poi ci hanno scelto, eravamo una ventina italiani, ci han mandati a NeoBrandeburg, a Stettino che si moriva di freddo, erano morte una ventina di donne, siamo andate sugli stessi mate¬rassi che giravano da soli per le bestie, mosche, cimici grosse più delle mosche, di tutto c’era: di giorno torturati dagli uomi¬ni, di notte dalle bestie. Non riuscivo a dormire perché ti veni¬vano addosso e ti coprivano, una si alzava e il corpo era tutto puntato . Lì non c’era pace nè giorno nè notte da nessuna parte. Lì a Brandeburg sono rimasta per un pò di tempo, era un campo di lavoro e si lavorava fuori, pioggia neve freddo o caldo, ti ba-gnavi cogli stessi stracci ti asciugavi. Quando arrivavi al campo ti han dato quelli, noi avevamo la nostra roba, ma ce l’hanno portata via tutta, t’han messa nuda come un verme e c’han dato tre stracci , se tu eri grande e grossa ti davano roba corta e stretta, se eri piccola ti davano roba grande … A dire tutto quello che é successo ci sarebbe da star qua molto, e anche a me stessa mi dà un pò fastidio … Siam partiti una bella notte, ci siam messi in colonna e abbiamo cominciato a camminare. Abbiamo cominciato a camminare senza meta. Io dicevo: sapete dove andia¬mo? Il nostro albergo é quello delle stelle.Cerere Bagnolati, nome di battaglia “Maria”, deportata politica. Al momento della deportazione aveva da poco compiuto 32 anni. Arrestata a Ferrara il 20/8/1944. In carcere nelle segrete di Castello Estense a Ferrara e a San Giovanni in Monte a Bologna. Deportata da Bologna per il campo di concentramento di Bolzano il 28/9/1944. Deportata da Bolzano per Ravensbruck il 7/10/1944 e poi a NeoBrandeburg il 23/10/1944. Affronta la “marcia della morte” fino alla fuga dei nazisti nel maggio 1944. Arriva a Ferrara, praticamente a piedi e con mezzi di fortuna, alla fine dell’estate 1945. Ad Otello Putinati, ex capo partigiano, che la incontra in Piazza Travaglio e le chiede da dove viene, risponde: “Io vengo dalla tomba”.Riconosciuta partigiana combattente, è decorata con Croce al merito di guerra.

Deportate 3“
77.344 era il mio numero…”“Per la razza unica che loro studiavano … hanno usato i prigionieri … hanno usato le ragazze. Perché purtroppo … io l’ho imparato dopo che cosa volevano ottenere dalle “visite”, ho imparato che cosa potevano aver fatto – degli scienziati!! – usavano le donne … che se vincevano loro … Queste cose qui, dove sono andate a finire? Quando mi hanno chiamata per convegni, ricerche, anche psicologiche, io ho sempre accettato perché serviva a me stessa, e siccome di noi molte non hanno avuto figli … allora c’è stato l’interesse a capire …. Allora ne parlavano proprio così: la razza pura ha usato i prigionieri come tutto il resto, ma di questo non si parla più, non si dice niente di questo …. Loro erano riusciti a togliere i mestrui … Io ho avuto le ultime mestruazioni quando sono stata arrestata, in agosto, anzi ero già al Castello Estense, che ero ridotta proprio … ma ero ridotta al punto che quando ci hanno portati alle carceri di San Giovanni in Monte la suora che ci prese in consegna si mise a piangere e disse: “mamma mia! come sei ridotta”, perché ero sporca. Ma le ho avute lì e poi mai più, non le ho mica più avute…Io ero a Bosco, un sottocampo di Ravensbruck nei pressi di Neubrandenburg . Eravamo tutte deportate politiche, perché in campo di sterminio deportate politiche ce n’erano di quelle che dopo è risultato che sono state semplicemente rastrellate … Erano deportate politiche lo stesso, ma che venivano dalla resistenza vera eravamo in poche … Le punture le facevano a tutte, ci chiamavano, e…Quando [tornata a Ferrara] sono stata ricoverata al Sant’Anna … la prima volta, senza avvisarmi, così, che mi portarono alla visita di controllo perché nelle mestruazioni non sono mai andata bene – ho avuto un figlio ma non sono mai andata bene – quando sono arrivata sulla porta che c’era questo lettino con la ginecologa, sono caduta per terra come una cosa … e anche dopo ho dovuto andare non da sola ma accompagnata, e prepararmi psicologicamente perché quella cosa lì, sedute così, ci han fatto delle visite interne … Non dico … avevo una libertà di espressione per quei tempi, avevo libertà di espressione in tutti i sensi, però la vita sessuale non la conoscevo, avevo ben altri pensieri … quella visita lì, in campo, è stata traumatica … poi, questi guanti gialli … io non sapevo neanche cosa potessero essere … Non immaginavo che potesse essere così … A Ravensbruck c’erano tutte le donne: c’erano le ebree, c’erano le politiche, c’erano le depravate, c’erano le zingare … Siamo arrivati là, in un posto… mamma mia! Non me lo dimenticherò mai. Appena dentro vedo un muccio di rifiuti e tutte queste donne pelate… Dio mamma! Ci portarono in un gran casermone con un corridoio lungo lungo e li dovevamo svestirci e lasciare tutto quello che avevamo addosso e la borsa, ma io non avevo niente con me. Ci hanno lavato e cosi nude ci hanno mandato fuori, in un’altra stanza dove c’erano delle donne tedesche che ci facevano da guardia. Non puoi immaginare la loro cattiveria! Poi ci hanno dato la divisa e un numero con il triangolo rosso che dovevamo cucire noi… 77.344 era il mio numero…Poi avevano creato questo sotto campo dove erano tutte deportate politiche che erano state arrestate. A livello psicologico non è che le hanno risparmiate, anzi hanno infierito di più perché erano donne consapevoli, che si erano esposte … Con le deportate russe c’era una che avevamo eletto, all’interno, come responsabile per la sopravvivenza, perché come diceva lei la Resistenza tu l’hai fatta, ognuna nei nostri paesi, in un modo; qui, in un altro, ma la dobbiamo fare. Perché io non intendevo mica ubbidire, ed è stato lì che nella ribellione ne ho prese tante, tante, tante che mi han lasciato in un lago di sangue. Lì sono state loro, le russe, che mi han portato nel blocco e mi hanno curato … Perché la Resistenza è diversa, la Resistenza è la sopravvivenza – lei diceva – perché se noi non andiamo a casa nessuno saprà mai cosa hanno fatto. Che vincano o non vincano, qualcuna di noi deve tornare a casa per poter far sapere cosa è stato fatto…Siamo arrivate a Ravensbruck, dopo tanto girare … era un pomeriggio … siamo entrate in questo campo così … Per quanto la stampa clandestina qualcosa aveva spiegato, poi io, in casa mia c’erano dei militari, dopo l’8 settembre erano stati portati dei militari scappati, e tra l’altro c’era uno che poi è rimasto sempre lì, era stato prigioniero in Russia, poi in Germania … in campo di concentramento … e lui mi aveva raccontato qualcosa della prigionia e della Germania, ma io sorridevo sempre, e forse non ci credevo neanche… Non immaginavo che potesse essere così …. Solo chi c’è stato può capirlo, e io credo che sia difficile che per esempio un film possa farlo … Come può farlo un altro?…” Clara Dragoni, staffetta politica e militare.Arrestata il 24 agosto 1944, rinchiusa nelle segrete di Castello Estense a Ferrara e poi in San Giovanni in Monte di Bologna, passata per i campi di Bolzano e Ravensbruck, viene destinata a Bosco di Neubrandenburg, campo di DORA. DORA sta per: Deutsche Organisation Reichs Arbeit: vi si producevano i missili V1 e V2 e il lavoro si svolgeva sottoterra, in grotte scavate dagli stessi prigionieri, per evitare l’individuazione e i bombardamenti alleati dell’ enorme cantiere sotterraneo (le due principali gallerie erano lunghe 2 chilometri). A Dora vennero deportate circa 60.000 persone, prevalentemente prigionieri di guerra, oppositori politici e ebrei. 1.435 erano italiani. Clara é stata riconosciuta partigiana combattente con il grado di sottotenente.

Matrimoni in brigata 1.
La Resistenza, come tutte le occasioni della vita, fu anche un luogo, uno spazio, un tempo in cui uomini e donne si incontrarono, si innamorarono, si sposarono Con ”matrimoni in brigata” intendo storie di amori nati nell’occasione della lotta clandestina e suggellati poi da un’unione o da un matrimonio contestuali all’impresa comune o immediatamente successivi.Ci siamo sposati senza vederciDarinca Iojic e Mario Guzzinati si sono sposati il 14 giugno 1945, a pochissime settimane dalla fine della guerra, che nelle zone dove loro operavano terminò l’8 maggio, con la Brigata ancora mobilitata.Darinca, che ora non c’è più, era jugoslava di origine. Anche la ex Jugoslavia ora non c’è più. Lei è giunta a Ferrara subito dopo la fine della guerra avendo sposato Mario, un partigiano ferrarese. La sua esperienza nella Resistenza è stata fra quelli che erano noti come “i banditi di Tito”, nelle formazioni partigiane che si formarono dopo la liberazione di Belgrado e che raccolsero anche molti militari italiani, che erano stati imprigionati o si erano dati alla macchia dopo l’8 settembre. Mario è tra questi e fa parte della Brigata Garibaldi d’assalto Italia. Darinca lo conosce quando viene chiamato a sostituire il capo del suo gruppo:“Mio marito era ferito, prima di Belgrado … lui è ferito il 14 settembre ’44… con la testa fasciata è uscito fuori dall’ospedale e ha combattuto per la liberazione di Belgrado. E difatti quando io l’ho conosciuto, nel gennaio del ’45, aveva ancora la ferita piena di vermi, che io con la pinzetta glieli tiravo via … Io mi sono affiancata lì e sono stata con loro dal ‘44 alla fine della guerra … Noi eravamo in una campagna, le case non so se erano casupole dei pastori, casupole dei guarda – vigneti. Ad ogni modo erano casupoline. E allora noi eravamo in queste casupole, con tutta la paglia per terra, e ci coricavamo tutti insieme. Mio marito mi ha sempre detto: “Non ti ho mai visto le gambe”.Ci siamo sposati senza vederci, perché si dormiva sempre vestiti, oltretutto stavi più calda, poi dopo se c’era bisogno di scappare eri già vestita … E, poveretto, io lo medicavo un giorno sì e un giorno no, sempre con la grappa, eh? Dopo, Io dicevo sempre quando si arrabbiava: “Forse è quella grappa che è rimasta nel cervello”, eh sì, perché non c’era altro per disinfettare le ferite… E così ci siamo conosciuti il 22 gennaio, il 14 giugno ci siamo sposati. Una cerimonia molto bella, mi sono sposata in cattedrale di Zagabria … siamo stati due giorni, poi siamo tornati in brigata”. Il ritorno in brigata (“lui nel suo posto, nel suo reparto, io nel mio, non è che ti mettevano insieme”) regala a Darinca e Mario un momento di grande gioia, il pranzo di nozze preparato dai compagni di battaglia:“Sia il corriere, che furiere, che barbiere, che tutti, sono andati in cerca delle uova e il nostro cuoco ci ha fatto le tagliatelle con le uova fritte con l’insalata. Ed eravamo più di 150, eh? Tutta la mia compagnia, poi tutti gli amici di Mario che li aveva negli altri battaglioni. E’ stata una festa veramente bella e quando sono arrivata là mi sono messa a piangere … Siamo anche andati a fare il bagno nel fiume. Era una parte della Croazia piena di Ustascia che hanno perfino incendiato un paese per dare colpa a italiani”.Quando, nel 1995, Darinca mi regala la sua testimonianza, nella ex Bosnia è in corso la guerra:“E lì, vedi, quando penso alla guerra di adesso, ricordo questi, i partigiani morti, e mi piange il cuore. Perché se tu ti voltavi, guarda … per terra … fai conto: i covoni … Sai, quando si tagliava il grano con la falce, li legavano, poi li lasciavano indietro … Erano tutti ragazzi di vent’anni, 18, 20. 16… e poi, adesso, questa guerra …”
