di Massimo Ciusani
Sto terminando di leggere con interesse ed ammirazione crescente le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci.
Oltre 950 pagine colme di cultura, scelte di vita e scuola di vita, sofferenze e patimenti, principi e valori incrollabili, un grande rigore morale. Un “romanzo di formazione” dove una tragedia personale viene vissuta con estrema dignità e dove “scene umili e atroci di un uomo malato nella solitudine di una cella riescono a vivificare l’immagine “eroica” che accompagnerà la sua figura” come scrive Santucci nella introduzione.
Il 12 settembre 1927 Antonio Gramsci scrive al fratello Carlo “Perchè ti convinca che mi sono trovato in condizioni terribili, senza perciò disperare, altre volte. Tutta questa vita mi ha rinsaldato il carattere. Mi sono convinto che quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. […] La mia posizione morale è ottima: chi mi crede un satanasso, chi mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo. […] Devo proprio essere io, che sono in prigione, con delle prospettive abbastanza brutte, a far coraggio a un giovanotto che può muoversi liberamente, può esplicare la sua intelligenza nel lavoro quotidiano e rendersi utile?”.
Il 12 marzo 1928 scrive alla mamma Peppina Marcias “Ti ripeto, ancora una volta, che tu non devi allarmarti qualunque sia la farragine di notizie che i giornali si compiaceranno pubblicare. […] Adesso sarò certamente condannato a molti anni, , nonostante che l’accusa contro di me si basi su un semplice referto della polizia e su impressioni generiche incontrollabili; ma il confronto tra il ’23 e il ’28 sta a dare la nozione della “gravità” in sé del processo attuale e a caratterizzarlo. Ecco perchè io sono così tranquillo. Tu pensi che ciò che deve contare non sono queste circostanze accessorie, ma il fatto reale della condanna e del carcere da soffrire? Ma devi contare anche la posizione morale, non ti pare? Anzi è solo questo che dà la forza e la dignità. Il carcere è una cosa bruttissima; ma per me sarebbe anche peggiore il disonore per debolezza morale e per vigliaccheria. Perciò tu non devi allarmarti e addolorarti troppo e non devi mai pensare che io sia abbattuto e disperato”.
Gramsci annotava in uno dei suoi celebri quaderni: “Esistono due modi per uccidere: uno, designato apertamente col verbo uccidere; l’altro, quello che resta di norma sottinteso dietro il delicato eufemismo: “rendere la vita impossibile”. Ha inizio il progressivo disgregamento delle forze fisiche e il disfacimento del corpo. La cognata Tatiana aveva potuto visitare Gramsci il 3 dicembre 1933. Ne scriverà a Sraffa il 7: “Debbo confessarvi che l’aspetto di Nino mi ha proprio spaventata. Non so se potrò rendere l’iidea delle condizioni fisiche in cui si trova se dico che sembra che sia ridotto proprio ai minimi termini, non solo, che ha i movimenti di un individuo che potrebbe infrangersi se fa un movimento brusco. Per mettersi a sedere o alzarsi Nino pare usare tanta precauzione da mettere sgomento. Ha poi, sulla faccia, una espressione di grande ansia”.
Aggrappato alle proprie convinzioni, sordo ad ogni compromesso col regime, Gramsci avverte tuttavia lo strazio dei “fili spezzati” degli affetti, della lontananza e della solitudine. Le forze lo abbandonano, non la dignità: ormai prossimo alla fine scrive al figlio Delio di sentirsi “un po’ stanco”, e passa subito a trasmettergli la passione per la storia, per “tutti gli uomini del mondo” che si uniscono, lavorano, lottano, migliorano se stessi.
Tempo fa era uscita una notizia di un presunto avvicinamento alla fede da parte di Gramsci. Nella lettera alla cognata Tania del 24 luglio 1933, quando ormai le condizioni di salute sono disperate e Gramsci stesso teme di non sopravvivere più a lungo, afferma: “[…] Per ciò che riguarda la psiche non posso dire molto di preciso: è certo che per molti mesi sono vissuto senza alcuna prospettiva, dato che non ero curato e non vedevo una qualsiasi via d’uscita dal logorìo fisico che mi consumava. […] Quelli che stavano con me quando mi trovavo nel punto critico della malattia mi hanno detto che nei momenti di vaneggiamento c’era una certa lucidità nei miei sproloqui. […] La lucidità consisteva in questo: che ero persuaso di morire e cercavo di dimostrare l’inutilità della religione e la sua inanità ed ero preoccupato che approfittando della mia debolezza il prete mi facesse delle cerimonie che mi ripugnavano e da cui non sapevo come difendermi.”
Luciano Canfora aveva espresso perplessità rispetto alla scoperta della fede da parte di Gramsci dicendo che non c’era alcuna fonte e documento che potesse affermare una cosa del genere. Non capisco perchè non abbia citato la lettera del 24 luglio 1933.
22 gennaio 2012