di Angelo D’Orsi per http://www.alganews.it
“Lei mi guarderà sorridendo”, scrive il giovane Marx a un suo sodale più vecchio, che esprimeva dubbi sull’azione teorico-politica portata avanti da quel giornalista che denunciava non soltanto le colpe delle classi dominanti, ma anche l’ignavia indifferente di tanti: “Dalla vergogna non nasce nessuna rivoluzione”, scriveva Marx, riprendendo il giudizio del suo sodale, Arnold Ruge, e ribatteva: “Ma io rispondo: la vergogna è già una rivoluzione… Se un’intera nazione si vergognasse davvero”.
Questo scambio mi è sovvenuto nel corso delle ultime giornate, davanti agli avvenimenti italiani, che in effetti hanno fatto provare vergogna ad alcuni, non certo a tutti, ma anche, curiosamente, avvenimenti che hanno suscitato, da parti avverse, il grido: “Vergogna”, con tanto di esclamativo. Quando gli è giunta la prima notizia di essere indagato dalla Procura di Agrigento, l’autonominato capo del governo, e factotum d’Italia, Matteo Salvini, ha esternato via tweet: “è una vergogna!”. Gli ha fatto eco, dalla sponda opposta, il sedicente segretario del PD, Martina, ora provvisto di barba che dovrebbe forse certificare una accresciuta autorevolezza, il quale ha parlato di “vergogna nazionale” davanti ai comportamenti del medesimo Salvini. Il quale a sua volta ha di nuovo fatto ricorso a questa parola impegnativa quanto usurata, dopo ulteriori notizie relative alle sue grane giudiziarie.
Ma di vergogna (o concetto analogo diversamente espresso) hanno parlato, in contemporanea, numerosi esponenti del PD, compreso quel Minniti che a Salvini ha fornito il “pacchetto Libia”, sancendo il “diritto” dei torturatori nei lager tripolitani, pur di toglierci dalle scatole quei fastidiosi insetti chiamati migranti, i “palestrati con le nike”, secondo la narrazione imposta ai social di cui è assiduissimo il Salvini.
Costui, dal suo canto, di vergogna non sembra provarne affatto, mentre, con stile oratorio e postura ducesca, lancia le sue ridicole sfide all’Europa, e andando ben oltre ciò che le leggi e la prassi gli consentirebbero (nel silenzio tutt’al più imbarazzato dei legalitari per antonomasia, i Cinque Stelle), sequestra, ricatta, minaccia: il ministro di polizia che pretende di ridurre l’Italia – quei “60 milioni di italiani” a cui fa ad ogni piè sospinto riferimento – a una fortezza ermeticamente chiusa di cui egli stesso dovrebbe essere il custode e il gendarme. Vergogna non ne prova quel bel tomo Di Maio, quando si inserisce nella scia salviniana dell’avvertimento all’Unione Europea, o quando riesce, conferenza stampa dopo conferenza stampa (in cui parla da solo…), a dire e contraddire, in una sequenza di comicità dell’assurdo, sia che parli dell’Ilva, sia che parli delle pensioni d’oro (d’oro?!), sia che richiami, come un robot, del “contratto di governo” che dovrebbe servire a giustificare o spiegare ogni sciocchezza compiuta o da compiere. Per tacere del Di Maio gestore della politica estera, che va a ribadire le intese economiche con il boia Al Sisi in Egitto, non vergognandosi di richiamare il povero Giulio Regeni con una frase a dir poco scandalosa che ha suscitato la costernazione irritata della famiglia. “Giulio Regeni siamo noi” (attribuita falsamente ad Al Sisi, peraltro).
Vergogna non ne prova, il capo dello Stato che sul caso del candidato ministro Paolo Savona aveva dimostrato una loquacità inusuale e francamente incostituzionale, nel merito: tace, il buon Mattarella, davanti a ministri che in tutta evidenza esulano da compiti e ruoli che la legge loro affida, e si pongono contro gli stessi princìpi della Carta Costituzionale. Vergogna, infine, pare essere sentimento del tutto estraneo a colui che ha accettato, di buon grado (sono occasioni che capitano una volta sola nella vita, si deve essere detto, guardandosi allo specchio), il sedicente presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di cui le cronache non possono raccontare neppure per sbeffeggiarlo, dato l’impenetrabile silenzio, rotto da qualche rarissima esternazione pappagallesca.
Vergogna non sembra neppure essere una vaga presenza nell’animo di Danilo Toninelli, trovatosi a dirigere, si fa per dire, l’impegnativo dicastero delle Infrastrutture e Trasporti, e sulla cui testa è piombata la grana del Ponte Morandi. Sul Ponte, come sul Tav, e altri grandi o piccole opere, l’uomo dagli occhiali più grandi del cranio, appare in manifesta difficoltà, balbettando di volta in volta frasi generiche o prive di senso compiuto, oscillando da un sì a un no, passando per un “ni”. Quel Toninelli, il cui rigore si può ben giudicare dal post (del 2014, ora cancellato dal suo “profilo” Facebook), in cui asserendo che Lega Nord e M5S erano incompatibili, scriveva: “La Lega ha bisogno dell’immigrazione perché altrimenti scomparirebbe. Senza la paura che i cittadini italiani hanno nei confronti degli immigrati, paura che la Lega cavalca e fomenta da 30 anni, questo partito ipocrita non prenderebbe un sol voto”. Quel Toninelli che, alla stregua dei signori Benetton (ci quali impuniti festeggiavano a Cortina coi loro ospiti vip nei giorni del dolore), non ha esitato a postare sempre sulla vetrina facebookiana le immagini della meritata vacanza con la famiglia al mare, mentre a Genova si piangevano i morti ,e la devastazione che il suo ministero avrebbe dovuto impedire, e che “d’ora in poi” dovrà impedire, mentre già le sue strutture interne mostrano altrettanto crepe dei piloni del Ponte Morandi, e, secondo un costume tutto nostrano, si palesano i contrasti fra Ministero e Provveditorato Opere Pubbliche, tra Regione e Comune, tra Società Autostrade e governo, e via questionando: le sole vittime, dopo i morti e i feriti, e i traumatizzati psichici, saranno i sopravvissuti, i danneggiati dal crollo e dalle pratiche relative all’abbattimento di quanto resta e alla ricostruzione, di cui sentiremo parlare a lungo, troppo a lungo. La prima vittima sarà Genova, e l’intera Liguria.
Troppo facile, cari Toninelli e Di Maio, incolpare di tutto i ”precedenti governi” (dimenticando che in quei governi a lungo hanno seduto gli alleati odierni della Lega); come troppo ribaldo da parte del PD ora fare la voce grossa sui nuovi barbari, rivendicando accordi europei e benefiche privatizzazioni, mentre si annuncia un grottesco ritorno di Veltroni, prontamente lodato da Eugenio Scalfari, padre nobile di una “sinistra” che non potrà che essere ignobile, come ignobile è stata la storia del partito nato dalle ceneri del PCI, da Occhetto in avanti, una storia i cui esiti, come l’Italia di questo anno 2018 dimostra, hanno riguardato non solo quel partito, ma l’intera società e la politica italiane. Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, Renzi, sono i primi responsabili di questo sfascio nazionale. Sono loro ad aver aperto la strada agli Hyksos. Sono loro ad aver cancellato, caparbiamente, le stimmate comuniste, e ad aver messo in libertà il popolo della sinistra, non solo: quel popolo, essi lo hanno respinto, lo hanno costretto a cercare collocazione altrove, in quelle organizzazioni che sembravano parlare il linguaggio dei poveri, degli schiacciati dai grandi e misteriosi potentati. E ora è ridicolo additare come il nuovo mostro il “populismo”, un termine che andrebbe bandito per almeno un decennio dal dibattito pubblico.
Oggi, dopo Genova, dopo il nostro 11 settembre, ancora il PD non è in grado di assumersi responsabilità, dirette o indirette (la complicità proprio con quei potentati), ma addirittura prova a rilanciarsi come guida dell’opposizione, con il solito Renzi dietro le quinte.
Del resto, questa Italia, come sta in fatto di salute politica? Come sta in fatto di uguaglianza? Come sta in fatto di rispetto dei deboli e tutela dei deprivilegiati? Come sta in fatto di efficienza delle infrastrutture e di sviluppo della cultura al tempo della crisi? Come sta in fatto di funzionamento delle istituzioni? La risposta è univoca: male, molto male. Ci ricorda l’Istituto Cattaneo che siamo il Paese che nutre i sentimenti più ostili verso i migranti, un Paese attraversato da profonde venature razziste, ma siamo, aggiungo, un Paese incattivito, nel quale sempre più sembra prevalere non soltanto la ricerca del “particulare”, ma affiora, giorno dopo giorno, l’effetto di una generale disgregazione, una crisi morale profondissima. Un solo episodio: una donna che si è ribellata al padrone in una tenuta agricola del Veneto (non della profonda Calabria), viene da questi sequestrata e imprigionata, in un cassone per la conservazione delle mele, e salvata per un puro caso da un operaio di passaggio, dopo due settimane di prigionia. Segnale inquietante di un Paese alla deriva, dove moralità pubblica e moralità privata sono terribilmente coerenti, e la società civile è specchio di quella politica: e il discorso sui migranti è la prima cartina di tornasole, ma non certamente l’unica; il rispetto delle donne, lo è altrettanto; e molti altri capitoli andrebbero menzionati, a partire dalla (mancata) tutela della sicurezza del lavoro, con lo stillicidio quotidiano dei morti che non fanno notizia…
“Di fronte a quanto accade l’opinione pubblica si divide tra chi prova vergogna e chi è incapace di vergogna”, si legge in un testo diffuso ieri a firma di Giovanni Maria Flick, Luigi Manconi, Vladimiro Zagrebelsky. Non parrebbe che la maggioranza degli italiani sia propensa a sentire la vergogna di quanto accade, di tutto quanto accade: del resto, “se un’intera nazione si vergognasse”, scriveva Marx, “sarebbe già una rivoluzione”.
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