Cumpanis

Cum panis è l’espressione latina dalla quale deriva la magnifica parola “compagno” e vuol dire mangiare lo stesso pane, dividerlo, in senso solidale; condividere gli stessi valori, gli ideali, le sofferenze, la lotta. Niente, come la condivisione del pane, evoca l’unità e oggi più che mai niente è più importante che ritrovare l’unità dei compagni e delle compagne. Cumpanis è il titolo che abbiamo voluto, poiché è per l’unità di tutte le compagne e i compagni, del movimento comunista e del fronte antimperialista e anticapitalista che vogliamo batterci.

EDITORIALE

Su molti popoli del mondo, tra i primi quello italiano, si è abbattuta in questa fase una tragedia di grandi proporzioni: la pandemia da coronavirus. La morte e il dolore che il virus ha disseminato hanno fatto sì, naturalmente, che queste fossero le questioni centrali sentite dalle popolazioni e trattate dai media. Solo in un secondo momento, in relazione al blocco di quasi tutta la produzione e di tanta parte delle attività, ha cominciato ad emergere la questione della crisi economica, che ha poi guadagnato spazio allineandosi, nella preoccupazione generale, alle questioni dei contagi, delle malattie e dei decessi.

Ciò che a questo punto è accaduto è che il mainstream generale, la cultura dominante, hanno teso ad addebitare totalmente la grave crisi economica che si va profilando (o meglio, per uscire dalle ipocrite liturgie del potere, la crisi sociale che si va profilando, soprattutto a danno dei lavoratori, delle lavoratrici e delle fasce sociali più deboli e non garantite) alla sola pandemia, sfruttando il suo alone nefasto per indicarla anche come l’origine del male economico. Razionalmente, sarebbe assurdo non riconoscere i danni all’economia causati dall’arresto della produzione e della redistribuzione delle merci. Ma il punto è che il tentativo del grande capitale e dei media al loro servizio di addossare tutta la colpa della crisi economica prossima ventura alla pandemia, appare (è) una sorta di gigantesca rimozione di una verità in essere che il capitale già conosceva e viveva sulla propria pelle, come sulla propria pelle la viveva, in termini sociali ben più dolorosi, la “classe”, il proletariato e l’ormai vasto sottoproletariato italiano.

In termini economici avevamo già assistito a un fenomeno inconsueto e persino straordinario per l’Unione europea: il maggior Paese esportatore dell’intera Ue, la Germania, il Paese dall’economia più sicura e solida, aveva registrato, tra la seconda metà del 2019 e l’inizio del 2020, una significativa caduta di export e di produzione interna, segno probante di una crisi del capitale industriale che si era già largamente manifestata nei Paesi dell’Ue estendendosi poi alla stessa Germania. Peraltro, in relazione al capitale fittizio e speculativo le cose non andavano certo in modo migliore: la coda e le convulsioni successive alla gravissima crisi economico-finanziaria dei subprime americani stavano incrociandosi, pur partendo da più lontano, con quella crisi del capitale industriale che andava presentandosi anche in Germania, attraverso la materializzazione di una bolla speculativa spinta dalle molteplici e drogate sopravvalutazioni degli asset azionari e del debito, cioè dalle obbligazioni. Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 (prima del coronavirus), l’Ue era già segnata dal combinato disposto di una crisi del capitale industriale e dal crollo quotidiano dei titoli in Borsa.

Naturalmente, tutto il pregresso, e cioè i guasti sociali profondi prodotti dalle politiche iperliberiste dell’Ue, dagli attacchi del grande capitale transnazionale e nazionale europeo e dall’Euro degli ultimi decenni contro il lavoro, i salari, i diritti ed il welfare, si faceva già, a sua volta, pesantemente sentire.

L’Italia che precede l’epidemia è un Paese già attraversato da una crisi sociale pesantissima, con una disoccupazione del 10%, 2 milioni e mezzo di persone senza lavoro,  5 milioni di persone nella povertà assoluta e 10 milioni in quella relativa (non c’è una città, nel nostro Paese, dove non vi siano mense per i poveri dalle lunghe file);  un abbattimento del valore reale dei salari e degli stipendi – in virtù sia del “contenimento salariale” dettato dall’Ue, fatto naturalmente proprio dal grande capitale italiano, e in virtù degli squilibri pesanti provenienti dall’Euro – di circa il 40%; una disoccupazione e inoccupazione giovanile del 52%, che spiega il perché il 12,6% dei giovani sia nella fascia della povertà assoluta. Un impoverimento generale della popolazione che ha, ad esempio, portato a un fatto davvero drammatico: 11 milioni di persone hanno preventivamente rinunciato, per grave mancanza di risorse, ad ogni prestazione sanitaria, privata o pubblica, per malattie fisiche o psicologiche.  Peraltro, uno studio condotto tempo fa da “Il Sole 24 Ore”, giornale non certo a fianco della classe operaia, ha dimostrato che il costo per la spesa quotidiana complessiva (generi di prima necessità, rata del mutuo, bollette, auto, scuola per i figli ecc.., che è il costo per la sopravvivenza, per la riproduzione semplice della vita) di una famiglia media italiana con due figli sia di circa 90 euro, 2.700 euro mensili, che non entrano certo in molte case italiane, specie in Meridione.

Un contesto generale segnato dalla privatizzazione massiccia (portata avanti col medesimo spirito liberista dal centro-destra e dal centro-sinistra, da Berlusconi e D’Alema) dei più grandi asset del sistema produttivo, finanziario e tecnologico pubblico italiano, dalla siderurgia alle telecomunicazioni, dalle banche ai poli produttivi industriali, un’azione complessiva che ha portato lo Stato, il pubblico, a dover rinunciare ad ogni progetto razionale di rilancio produttivo strategico, delegando lo sviluppo, la produzione e la costruzione del lavoro solamente e totalmente agli “spiriti animali” del capitalismo e all’anarchia nera del mercato. Ed è in questo contesto, peraltro, che abbiamo assistito alla destrutturazione scientifica della sanità pubblica, alla sua massiccia privatizzazione, alla sua mutazione in “azienda” (il passaggio delle strutture di sanità pubblica da Usl, Unità sanitarie locali, ad Asl, Aziende sanitarie locali, non è stato certo un gioco semantico delle tre carte, ma la ratifica della trasformazione della sanità pubblica in soggetto della riproduzione del capitale). Una sanità pubblica che subisce un taglio complessivo di circa 37 miliardi di euro negli ultimi dieci anni, che perde circa 70 mila posti letto, con 360 reparti chiusi e un taglio profondo del personale: circa 10 mila medici in meno e circa 30 mila infermieri e tecnici in meno. Oltre la completa privatizzazione (si tratta di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici) di tutto il comparto delle pulizie degli ospedali e delle strutture sanitarie pubbliche.  Un servizio sanitario pubblico che si presenta, nella lotta contro il virus, con soli 5.090 posti letto di terapia intensiva sul piano nazionale!  Ed è in queste condizioni prodotte dal neoliberismo dell’Ue e dal neoliberismo italiano che la sanità pubblica si è trovata, nel nostro Paese, a fronteggiare l’ondata furibonda del coronavirus.

È chiaro, oltretutto, che anche in Italia l’impatto dei processi relativi alla Quarta Rivoluzione Industriale (il nuovo apparato produttivo macchinico generale capitalistico segnato da processi profondi d’informatizzazione e di robotizzazione), con la sua nuova capacità di immettere sul mercato enormi quantità di merci con molta mena forza lavoro, abbia provocato nuova e significativa espulsione di lavoratori e lavoratrici dalla produzione, contraendo ancor più un mercato interno già ristretto dalla sottosalarizzazione di massa e dalla povertà diffusa.

Pur riconoscendo, dunque, alla pandemia il suo ruolo di detonatore delle contraddizioni economiche in atto, è chiaro che la nuova crisi ciclica del capitale era già tutta in potenza e vicina a presentarsi in forma d’atto. Il fatto che il mainstream generale tenda a spostare tutta la responsabilità della crisi economica sull’espansione del virus, è un classico del capitale che – come aveva già affermato Marx – non volendo e non potendo riconoscere la propria, strutturale, fragilità interna, è costretto ad individuare, di volta in volta e moralisticamente, le cause delle proprie crisi cicliche in eventi esterni al proprio modo di produzione.

Peraltro, anche in relazione alla crisi dei mutui subprime e alla bolla speculativa nordamericana del 2007, fummo di fronte a un gigantesco tentativo di spostamento delle questioni: si definì la crisi essenzialmente come crisi finanziaria, negando che fosse una crisi economica del capitale e una sua nuova crisi ciclica. Tutto fu tirato in ballo, sul piano finanziario, affinché il modo di produzione capitalistico fosse esentato dalla colpa: le responsabilità erano delle obbligazioni strutturate, dei derivati sui crediti, dell’insipienza del risk-management, delle politiche monetarie della Federal Reserve, della cecità delle politiche bancarie, sino all’“avido risparmio cinese”. Tutto si metteva in ballo meno che le questioni che sovraordinavano, anticipavano e davvero determinavano la crisi: il crack immobiliare nordamericano, di natura prettamente economica,  e il fatto che dal 1973 sino al 2008 il saggio di crescita del prodotto interno lordo pro capite mondiale si sarebbe rivelato essere persino inferiore ai due terzi  del saggio di crescita che si era determinato dal 1950 al 1973 se non fosse stata conteggiata, nella fase 1973-2008 , la crescita economica della Repubblica Popolare Cinese. Una vera e propria profonda e nuova crisi ciclica del capitale che determinava anche la crisi finanziaria. Non viceversa, come sostenevano gli esegeti del capitalismo e non tanto perché “dio acceca chi non vuole vedere”, ma in virtù di una vera e propria, scientemente sostenuta, lotta ideologica del capitale per rimuovere la verità.  Non per niente, ne Il Capitale, Marx, rispetto alle crisi cicliche, così scriveva: «Le crisi cicliche rappresentano il modo con cui il capitalismo supera momentaneamente le sue contraddizioni e riavvia una fase di sviluppo, ma ogni volta che questo avviene le contraddizioni si accumulano e vengono spostate in avanti, causando la preparazione di nuove crisi».

Crisi cicliche del capitale che si ripetono dal primo grande crollo del capitalismo, quello che va dalla prima parte del ’900 al 1945, nel periodo tra le due guerre mondiali, nel quale gli assetti capitalistici internazionali si scontrano con la contraddizione intrinseca del modo di produzione capitalistico, cioè la sovrapproduzione assoluta di capitale e di ogni altra forma con cui il capitale si presenta nella sua totalità: sovrapproduzione di mezzi di produzione, eccesso di materie prime e di beni di consumo, sovrabbondanza di forza-lavoro (disoccupazione cronica, esuberi) e di denaro. Un eccesso spropositato di tutti questi beni che impedisce la stessa rivalorizzazione del capitale, che per rigenerarsi ha bisogno di bruciare la propria, esuberante ma paralizzante, ricchezza presente al fine di costituirne un’altra, nuova ed attiva. E saranno le guerre, la prima e la seconda guerra mondiale, a bruciare il capitale in eccesso per favorire una nuova accumulazione capitalistica funzionale al superamento della crisi ciclica.

Ora, in questi nostri giorni, sono sia la profondità della crisi economica del capitale che i tempi ravvicinati delle sue crisi cicliche (la fine della crisi dei mutui subprime è del 2013, a soli 7 anni dall’attuale crisi) a deporre a favore di una caduta pesante di credibilità e prestigio, di fronte agli occhi delle masse, del potere capitalistico, della sua cultura. La stessa modalità con cui, nella fase della pandemia, la crisi si è mostrata (come crisi sanitaria dovuta alla destrutturazione e privatizzazione della sanità pubblica) sembra poter aprire gli occhi a vaste aree del senso comune di massa, che di nuovo sentono sulla loro pelle quanto dolore sociale può scaturire dal dominio assoluto del mercato e quanto sia necessario il ritorno del ruolo dello Stato, del pubblico, nella gestione e nella direzione dell’economia e del bene comune. A partire da ciò, quanto potrebbero essere di nuovo in campo le prospettive e i valori del socialismo.

Se non ora, quando? Le gravi contraddizioni capitalistiche riconsegnano oggi, oggettivamente, anche in Italia, un ruolo politico e sociale centrale alle forze comuniste e anticapitaliste. Ma, mentre sul piano planetario le forze comuniste, antimperialiste, rivoluzionarie, anticapitaliste si vanno rafforzando, sino a costituire, nella loro multiformità, un fronte capace di presentarsi come alternativo ai poli imperialisti (innanzitutto al più pericoloso e gonfio di guerra, quello USA) queste stesse forze oggi, nel nostro Paese, versano in uno stato di drammatica debolezza.

Sul fronte comunista, una debolezza che trova le proprie basi materiali nel lungo processo involutivo del PCI e, infine, nel suo autodissolvimento e nell’incapacità sostanziale delle esperienze comuniste organizzate successive al PCI di fornire ed essere una risposta alla stessa crisi del movimento comunista italiano. Nell’essenza, la questione comunista, in Italia, è ancora una questione aperta. Non risolta. La stessa crisi comunista si riverbera, peraltro, ed è speculare e parte della crisi della stessa sinistra anticapitalista italiana. La somma di queste debolezze la si constata poi sul campo: non solo sentiamo l’assenza di una forza comunista di quadri, di massa, di lotta, una forza comunista unitaria e di popolo, ma sentiamo anche e drammaticamente l’assenza di un più vasto fronte popolare di natura anticapitalista. Le due cose, ce lo dice l’esperienza politica generale, si tengono.

È proprio la crisi del capitale, oggi, sono proprie le sue crisi ravvicinate a chiedere alle forze comuniste e della sinistra anticapitalista di tornare a svolgere, nelle nuove forme che la fase generale richiede, senza cieche e dunque dannose “coazioni a ripetere”, il loro ruolo, un ruolo di lotta e progettualità.

Ma la possibilità di tornare a svolgere questo ruolo è, in questa fase, innanzitutto impedito dalla risibile, quanto drammatica, polverizzazione delle forze comuniste e della sinistra anticapitalista. Mai, forse, il movimento comunista italiano è stato, come in questa fase, tanto diviso e questa stessa divisione si offre come il primo e stesso segno della crisi. È probabile che, ormai, si aggiri attorno a 15 mila il numero totale dei comunisti e delle comuniste iscritti/e ai vari partiti comunisti presenti, con, più o meno (in relazione allo storico rapporto del 10% tra iscritti e attivisti, un rapporto che valeva anche per il PCI, ma con 1 milione e mezzo di iscritti) 1.500 militanti complessivi sul piano nazionale. E probabilmente molto meno, poiché il rapporto 1 a 10 tra iscritti e militanti che valeva per il PCI all’apice della sua forza e del suo prestigio ora è molto peggiorato. Un numero di militanti, dunque, non certo alto rispetto alla dura lotta di classe continuamente sospinta dal capitale. Una già insufficiente massa critica di attivisti ancor più indebolita dalla propria divisione e dalla dislocazione in organizzazioni politiche diverse, non raramente l’una contro l’altra armata. Questo frastagliamento, peraltro, non solo impedisce di mettere in campo una massa critica sufficiente all’azione e alla lotta politica e sociale, ma inficia naturalmente, a partire da questa particolare debolezza materiale, anche uno sviluppo sul piano della ricerca politico-teorica, impedisce di mettere in campo una forza comunista unita e unitaria capace di essere all’altezza dei tempi e dello scontro di classe. Capace di rilanciare la propria autonomia organizzativa, politica e teorica e, insieme, capace di offrirsi come soggetto importante per la costruzione di un più vasto fronte antimperialista e anticapitalista.

Da qui, da queste semplici constatazioni, parte “Cumpanis” per chiarire il proprio ruolo, i propri obiettivi: offrirsi, innanzitutto ai dirigenti, agli intellettuali, ai militanti delle varie forze ed esperienze comuniste in campo (ma anche a individualità della, forse ancora vasta, diaspora comunista non organizzata), oltreché a esponenti della sinistra antimperialista e anticapitalista,  come un luogo del confronto, della discussione e della ricerca politica e teorica aperta, nell’intento finale di favorire processi unitari.

Siamo convinti che la militanza comunista, pur dispersa in varie esperienze organizzative, partitiche e non partitiche, sia attraversata dal desiderio dell’unità; che lo stesso desiderio – forse in modo ancor più forte – attraversi la diaspora comunista, le compagne e i compagni privi, oggi, di punti di riferimento organizzativi. Siamo convinti che la rimessa in campo di un confronto unitario risveglierebbe entusiasmi e passioni oggi ancora presenti ma molto “raffeddati” e delusi dalla disgregazione organizzativa e politica.

Siamo convinti che la messa in campo di un confronto unitario tra comunisti e comuniste di diversa collocazione attirerebbe anche l’attenzione di una parte del mondo del lavoro, dei quadri operai, di una parte degli intellettuali e delle giovani generazioni.

La riflessione di “Cumpanis” non parte da zero: sappiamo che oggi i primi nemici  dell’umanità e della pace sono l’imperialismo USA e il suo braccio armato, la NATO; sappiamo che l’Ue e l’Euro sono gabbie irriformabili iperliberiste dalle quale i popoli e gli Stati devono uscire; che vi è un fronte antimperialista mondiale in costruzione, attorno alla Repubblica Popolare Cinese, che senza offrirsi come il nuovo “faro”, offre nuove e materiali occasioni di liberazione ai popoli soggiogati dalle forze imperialiste e neocoloniali; sappiamo che il profilo politico e teorico dell’attuale movimento comunista italiano è ancora debole e appannato, che molto c’è da cercare e da studiare, anche in relazione alla sua stessa, complessiva a e contraddittoria storia; crediamo che gli assetti del potere capitalistico in Italia, i suoi nuovi modi di produzione e la stessa condizione materiale della “classe” siano divenuti fenomeni pressoché sconosciuti alle stesse forze comuniste e anticapitaliste e, dunque, fenomeni da rimettere sotto lo sguardo attento dell’indagine, al fine di comprendere lo stato reale delle cose;  sappiamo che dobbiamo cercare una nuova forma-partito comunista segnata dalla capacità di lotta, di radicamento, di formazione dei quadri e da una nuova e più forte democrazia interna. Sappiamo che la cultura unitaria non è un regalo dello spontaneismo ma un approdo culturale e politico, una presa di coscienza. Ma crediamo di sapere, anche, che tutto ciò – una massa critica superiore, un più alto profilo teorico e ideologico – potrebbero meglio, molto meglio determinarsi sulla base di una nuova unità comunista.

Crediamo che oggi, proprio in questi giorni, il compito dei gruppi dirigenti dei vari partiti comunisti e delle esperienze comuniste in campo nel nostro Paese dovrebbe essere quello di indicare immediatamente, rispetto alla crisi sociale profonda che si va presentando, un primo confronto unitario che sbocchi immediatamente in azioni di lotta comune, che ora potrebbero molto più di prima essere accolte positivamente a livello di massa:

• lanciare, sulla base di un documento comune, una vasta campagna e una raccolta di firme volta alla liberazione del Paese dai diktat dell’Ue, dai suoi “prestiti” che si trasformeranno ben presto in un cappio “greco” per l’impiccagione dell’intero mondo del lavoro;

• popolarizzare una proposta di forte tassazione del grande capitale in modo che non prenda corpo la linea politica più perversa, quella che già si manifesta: lo spostamento di ingenti quantità di ricchezza sociale verso il grande capitale, attraverso l’ambigua parola d’ordine “far ripartire l’economia”;

• sostenere una campagna di massa che richieda la fine immediata dell’evasione fiscale, a partire da quella enorme del grande capitale e a partire da misure severissime contro tale, ignobile evasione;

• popolarizzare una semplice parola d’ordine: spostare le ingenti spese economiche per i fronti di guerra e per il riarmo verso le esigenze sociali e popolari, a partire dal rafforzamento della sanità pubblica;

• avviare subito una campagna di massa comune e unitaria per la riduzione dell’orario  di lavoro a parità di salario: la crisi economica e sociale espellerà dalla produzione centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, il nuovo modo di produzione capitalistico prevedeva già l’espulsione dalle fabbriche e dai luoghi della produzione di vaste aree di forza-lavoro e oggi il combinato disposto tra la crisi che verrà e la spinta intrinseca del capitale a liberarsi della forza-lavoro, sfocerà in una vera e propria disperazione sociale. Oggi, dunque, occorre porre la questione della riduzione dell’orario di lavoro!

Queste lotte si offrono subito come un terreno unitario per le varie forze comuniste e della sinistra anticapitalista. I militanti comunisti e di questa sinistra sono già uniti idealmente in questo progetto: se venissero uniti anche nelle piazze non si sottrarrebbero alla lotta e all’unità. Se i gruppi dirigenti delle varie forze non lanciassero oggi un progetto unitario di lotta sul quale costruire strategicamente l’unità, questi gruppi dirigenti si trasformerebbero negli artefici della divisone dei comunisti e dei militanti della sinistra anticapitalista.

La redazione di “Cumpanis” e la Casa Editrice “La Città del Sole”, per dare il titolo al giornale, hanno unito le due parole dell’espressione latina “cum panis”, divedere il pane, da cui proviene la meravigliosa parola “compagno” e da cui deriva il senso alto dell’unità.

Con le nostre poche forze e con tutta modestia, a questo grande obiettivo dell’unità vogliamo dare un contributo.

La redazione

 

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