Convegno dell’Assemblea Donne Comuniste – PCI
Relazione introduttiva di Maria Carla Baroni
Milano, 3 ottobre 2020
Care compagne
la parola “compagna” significa “colei con cui condividiamo il pane” e noi tutte condividiamo, pur nelle varie forme della politica e nelle varie sfumature della sinistra in cui operiamo, il pane del desiderio e della volontà di ottenere la liberazione delle donne.Che significa “liberazione delle donne”? vedremo più oltre i vari significati di “libertà” e di “liberazione”.
Intanto diciamo che la locuzione “ donna e politica” apre uno scenario amplissimo, articolato in una molteplicità di possibili interpretazioni che è interessante iniziare a sviscerare e su cui è importante aprire approfondimenti e dibattiti.Quando si dice che una persona è “in politica” si pensa subito che abbia un incarico istituzionale, che faccia parte di un organismo dotato di potere istituzionale, cioè del potere di prendere decisioni che determinano le condizioni di vita della collettività di riferimento e del territorio in cui essa è insediata. Quando il termine “potere” è usato in politica scivola, dalla sua definizione originaria come capacità o possibilità di agire e produrre effetti, alle accezioni di influenza, autorità, imposizione, dominio, sopraffazione.
A me pare rilevante iniziare questa introduzione con una carrellata nella storia a partire da tempi anche molto lontani, e non solo da “ieri”, perché le modalità con cui sono state presentate – fino a tempi recentissimi – le donne nella storia, di una storia scritta solo da uomini, ci dice molto anche su come vengono percepite e considerate oggi le donne di potere, pur nelle mutate condizioni di accesso al potere.
Se infatti si pensa a donne e politica, a donne e potere nella storia, subito vengono in mente Cleopatra d’Egitto, Isabella di Castiglia, Elisabetta I d’ Inghilterra, Caterina II di Russia, Maria Teresa d’Austria e Vittoria d’Inghilterra, quest’ultima ricordata per la durata del suo regno e per il clima culturale del tempo, l’epoca vittoriana, e basta lì. La stessa Cleopatra (69-30 a.C.), poi, non fu la splendida creatura immortalata sullo schermo da Elisabeth Taylor, non fu la donna lussuriosa e fatale cantata da Dante e da Shakespeare; le monete coeve, l’unico ritratto che abbiamo di lei, la ritraggono bruttina di viso, con naso e mento sporgenti. Ma fu una donna libera e audace, intelligentissima e molto colta, che parlava nove lingue, promosse la cultura, innovò la politica monetaria e fiscale del suo paese, diede impulso all’economia, organizzò eserciti, sedò rivolte, condusse trattative politiche con rara abilità diplomatica, estendendo l’impero tolemaico su quasi tutta la sponda orientale del Mediterraneo e rendendolo snodo ineludibile tra Oriente e Occidente.
Prima di lei regnarono in Egitto ben otto donne faraone in proprio, oltre a importanti regine mogli di faraoni e reggenti; la più importante fu la grandissima Hatshepsut (sul trono dal 1498 al 1483 a. C.), nota quantomeno agli amanti dell’arte per la costruzione del suo magnifico tempio funerario di Deir el Bahri vicino a Tebe.
Nell’antichità sono da ricordare anche tre grandi regine che lottarono per liberare il loro paese da popoli invasori, anche comandando in prima persona i propri eserciti: l’egizia Iahhotep (1570 a. C.), vittoriosa contro gli ittiti, Boudicca o Baodicea di Britannia (33-60 d.C.) e Zenobia di Palmira (240- 275 d.C.), che, nonostante il loro coraggio e le loro capacità, dovettero alla fine soccombere alla potenza dell’impero romano. Tra le regine guerriere occorre comprendere anche Kahina, figura fondamentale nella resistenza berbera durante la conquista Omayyade del Nord Africa (odierna Tunisia) nel VII secolo.
Ho tratto le personagge cui ho accennato, e le altre cui accennerò per le epoche successive, soprattutto dai libri che ho incontrato e che continuo a incontrare in base alla passione che mi porta a leggere tutto quanto trovo sulle donne nella storia, nelle scienze e nelle arti da qualche decennio a questa parte, da quando anche in Italia – sulla scorta dei women’s studies anglosassoni – compaiono saggi e biografie (a opera sia di italiane sia frutto di traduzioni) su donne meritevoli di essere conosciute ancor oggi; donne spesso oggettivamente più meritevoli di memoria di uomini caduti nell’oblio cui sono dedicate in gran numero targhe stradali e voci di enciclopedie. Donne che meritano ciascuna libri o almeno capitoli di libri, in parte già esistenti, a cui qui non si può che accennare.
Questa carrellata per semplici cenni mi pare in ogni caso rilevante per ricordare una volta di più quanto sia pretestuosa la considerazione delle donne sprovviste di anima, di intelletto, di progettualità, di creatività, di capacità di governo e di grandi imprese; la considerazione delle donne deboli fisicamente, psichicamente e moralmente, tramandata dalle principali culture che sono alla base della civiltà occidentale: quella greca (Aristotele) e quella cristiana ( i Padri della Chiesa). In questo senso non furono da meno altre grandi culture come quella araba e quella cinese. Considerazioni ancora largamente presenti – in varia forma – nell’ormai avviato secolo XXI, e, sia pure in modo un po’ attenuato, anche in Europa e negli Stati Uniti d’America.
( Per inciso Aristotele considerava le donne come maschi dal corpo mutilato e ricondusse la loro mancanza di anima anche alla presenza delle mestruazioni, indicative di inferiorità morale causata da una legge naturale. I teologi cristiani si accodarono, asserendo che mestruazioni e doglie del parto erano immonde conseguenze del peccato originale. Nel XX secolo i naturalisti darwiniani dichiararono che mestruazioni e gravidanze sottoponevano le donne a un continuo esaurimento del cervello. Il tabù delle mestruazioni, dovuto alla paura maschile nei confronti della capacità femminile di generare, continuò fin nel secolo scorso, non solo sotto forma di credenze popolare strampalate, ma anche da parte di istituzioni. Fino al 1914 il Codice generale della Chiesa cattolica invitava le donne mestruate a toccare l’ostia consacrata solo con le mani coperte dai guanti e lo Stato italiano vietò alle donne l’accesso alla magistratura fino al 1963, ritenendo che le mestruazioni ricorrenti, con malesseri annessi, le rendessero incapaci della razionalità necessaria a espletare funzioni giudicanti).
Qualche cenno ora ad alcune donne di potere lungo la storia del nostro Paese, che governarono i loro territori in periodi particolarmente difficili e turbolenti: Galla Placidia (388 -450 d.C.) imperatrice romana, e Teodolinda (570-627) regina dei Longobardi, figure forti e carismatiche ricordate soltanto per le opere d’arte che fecero costruire; Adelaide contessa di Torino (1016-1091), per 30 anni figura fondamentale nel determinare il radicamento territoriale e il destino storico della dinastia dei Savoia e protagonista, insieme alla cugina Matilde di Canossa (1046 -1115), dell’età in cui l’Europa cristiana fu divisa dalla lotta per le investiture, e coautrice, insieme a quest’ultima, del riavvicinamento tra l’imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII; Eleonora d’Arborea (1347-1404), a capo di un esteso principato sardo, il cui merito principale fu di aver promulgato, con la “Carta de Logu “ , in lingua volgare e quindi comprensibile a tutti/e, un testo di leggi che contemperavano gli interessi contrapposti degli agricoltori e dei pastori riguardo all’uso del territorio e che dimostravano notevole modernità ed equità sociale nel disciplinare i rapporti interpersonali, soprattutto a tutela delle donne, anche in caso di stupro; in sostanza lo stupro veniva da lei considerato reato contro la persona e non contro la morale; Caterina Sforza ( 1463-1509), che coraggiosamente contese anche in armi il suo piccolo Stato romagnolo a Cesare Borgia e ai suoi alleati francesi.
Non può mancare, passando ad altre situazioni, un cenno a Melisenda regina di Gerusalemme (1105-1161), figura carismatica che governò per 20 anni la città conquistata dai Crociati.
Per la trattazione delle donne di potere nei vari Paesi europei segnalo “Le grandi donne del Medioevo” di Ludovico Gatto (che ci narra delle imperatrici della casa di Sassonia, delle sovrane francooccidentali – tra cui la grande Eleonora d’Aquitania – e delle sovrane sveve) e “Regine per caso. Donne al governo nell’età moderna” ( dal secolo XIV al secolo XVIII ) di Cesarina Casanova, secondo cui i casi di donne che esercitarono il potere in Europa, più o meno formalmente, hanno in comune il fatto di essere stati resi possibili da situazioni di instabilità politica; anche se tali situazioni di crisi ebbero caratteristiche e conseguenze diverse, per la regalità femminile fu possibile affermarsi per effetto dell’assenza o dell’interruzione del principio di continuità dinastica in linea maschile. Tra le tante figure presentate in questo importante saggio mi preme ricordare almeno Margherita Beaufort contessa di Richmond (1443-1509), che riuscì a mettere fine alla guerra delle Due Rose in Inghilterra grazie alla sua abilità di combattente prima e di negoziatrice poi. Il saggio è importante anche perché mette in luce i pregiudizi, le prevaricazioni e le falsità propagandate fino a tempi recenti per contrastare e delegittimare l’attribuzione a donne del potere regio o comunque di funzioni di governo ai massimi livelli. Pregiudizi, prevaricazioni e falsità che colpiscono tuttora – nel secolo XXI, lo ribadisco – le donne che aspirano al massimo potere statuale.
Nell’impero degli zar quattro donne furono zarine nel XVIII secolo prima di Caterina II e ressero l’impero con pugno di ferro, anche se gli uomini che le avevano fatte incoronare ritenevano che avrebbero potuto manovrarle come fantocci. Da segnalare anche un interessante libro di Elena Bonoldi Gattermayer “Tre donne della Riforma”: Margherita d’Angoulème regina di Navarra, sua figlia Giovanna d’Albret e Renata di Valois divenuta duchessa d’Este. Esse, nella Francia del XVI secolo dominata da una intolleranza religiosa particolarmente feroce e funesta, fecero politica ponendosi come ponte nei confronti della Riforma protestante, agendo per un rinnovamento che riportasse l’esperienza religiosa ai valori del cristianesimo originario.
Probabilmente le donne di potere fin qui citate operarono come avrebbe operato un uomo nelle stesse situazioni; le uniche che portarono una differenza femminile furono a mio parere le tre aristocratiche francesi che propugnarono non solo tolleranza religiosa, ma pure comprensione tra posizioni differenti e ricerca di valori condivisi; e soprattutto Eleonora d’Arborea, la giudicessa sarda che dovremmo essere orgogliose di considerare la prima Madre costituente della storia italiana, operante 600 anni prima delle 21 donne elette nel 1946 all’Assemblea Costituente.E’ importante ricordare le donne di potere che lungo la storia umana hanno dimostrato a iosa che anche le donne possiedono forza, coraggio, determinazione, capacità di governo e militari, appena appena non si impedisca loro di dimostrare tali capacità. Ma oggi non possiamo accontentarci di questo: dobbiamo porre la questione delle donne che devono desiderare e conquistare il potere politico per cambiarne contenuti e modalità di esercizio.
Facendo un tuffo in altre culture e in altri Paesi rimando in primo luogo a un libro degli anni ‘90 di Fatima Mernissi, sociologa marocchina, dedicato a “Le sultane dimenticate: donne capi di Stato nell’Islam”. Vi furono sultane mamelucche, mongole, nelle isole Maldive e dell’Indonesia, e regine arabe, yemenite ed egiziane. Come in Europa, alcune avevano ricevuto il potere in eredità e altre avevano dovuto assassinare gli eredi per ottenerlo e lo avevano assunto esclusivamente in aderenza agli schemi dominanti, cioè maschili. Molte erano state personalmente alla testa di battaglie, avevano inflitto disfatte e concluso armistizi. C’erano comunque state in un buon numero, anche se oggi sono completamente rimosse dal sentire comune e dalla cultura ufficiale, ancor più che in Occidente.
E che avvenne ad es. dal punto di vista delle donne di potere negli oltre due millenni dell’Impero cinese? Ressero lo Stato tre imperatrici: Donna Lu (nata nel 220 a.C., ottima governante con il titolo di imperatrice madre, anche se spietata nel liberarsi dei vari pretendenti al trono e delle loro madri); Wu Tsertien (624 -705) che mutò il suo status da concubina imperiale a imperatrice consorte a imperatrice regnante e che fondò una propria dinastia; e Tsu Hsi (1835-1908), prima anch’ella concubina imperiale e poi imperatrice madre, che di fatto regnò ininterrottamente sulla Cina per ben 47 anni agli sgoccioli dell’Impero. In varie epoche, soprattutto nei secoli IV e XVII, assunsero importanza anche donne guerriere, alcune equiparabili alla francese Giovanna d’Arco.
In tempi più recenti non si può dimenticare Song Qinling (1893- 1981), moglie di Sun Yat-sen, che fu artefice della rivoluzione del 1911 e del passaggio dall’Impero alla Repubblica di Cina. Dopo la costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 Song Qinling ricoprì diversi incarichi di primo piano, tra cui quello di presidente (dal 1968 al 1972) della Repubblica Popolare Cinese guidata da Mao Zedong ed è tuttora ricordata come “madre della Patria”. Rimanendo in Asia, e precisamente in India, ricordo Hazrat Mahal, begum dell’Awadh, piccolo Stato indipendente nel nord del Paese, che nel 1857 si battè eroicamente, sostenuta dall’intera popolazione, contro l’imperialismo britannico per mantenere la libertà del suo popolo. Nel centenario dell’insurrezione Nehru cambiò nome al parco di Lucknow, dedicato alla regina Vittoria, in Parco della begum Hazrat Mahal.
Concludo questa carrellata menzionando Micaela Bastidas Puyucahua (1744-1781), moglie dell’imperatore Inca Tupac Amaru II, ministra, precursora dell’indipendenza del Perù e simbolo della lotta contro la dominazione spagnola, trucidata dagli oppressori e tuttora venerata nel suo Paese.
Finora, saltando qua e là nel tempo e nello spazio, ho accennato al rapporto donne-potere politico. Ma, considerando i termini “potere” e “politico” in una accezione ampia, non si può trascurare un accenno all’esclusione delle donne dal potere religioso, in quanto la storia dell’umanità ha sempre dimostrato quanto sia “politico” il potere religioso. Nelle antiche culture egizia, greca e romana le donne avevano accesso al sacro, alle sue cariche e alle sue funzioni. (La tonaca dei preti cattolici è un’eredità delle lunghe vesti delle sacerdote greche e romane…). Le donne sono invece escluse dalla gestione del sacro dalle religioni monoteiste: dall’Ebraismo, dal Cattolicesimo e dall’Islam. La prima che contestò questa esclusione rispetto al Cristianesimo fu Marie de Gournay, nel suo trattato “Uguaglianza degli uomini e delle donne” del 1622: Dio non è né maschio né femmina e il genere maschile, benchè non esistano espressi divieti e nonostante la considerazione di Cristo verso il genere femminile, esclude le donne dal sacerdozio per conservare da solo un potere che non vuole condividere nemmeno a distanza di tanti secoli dalle origini. Marie de Gournay, né moglie né monaca, né cortigiana né strega (in quanto alchimista), donna fuori dai ruoli femminili allora codificati e socialmente accettati, potè esprimere anche una libertà di parola fuori dagli schemi: sul genere di Dio e sull’esclusione delle donne dal potere religioso trecentocinquant’ anni prima di Mary Daly, statunitense di estrazione cattolica considerata la madre della teologia femminista.
Nella Chiesa Valdese, nella Chiesa Anglicana e nella Chiesa Luterana le donne hanno conquistato di essere pastore e vescove e affermano che Dio è anche Madre e non solo Padre. Teologhe mussulmane hanno reinterpretato il Corano e alcune donne, negli Stati Uniti, nel Nord Europa e a Berlino, hanno conquistato il fatto di essere imam e di essere loro a condurre la preghiera del venerdi, simbolo di autorevolezza e di potere. Qualche anno fa le “Donne del Muro” di Gerusalemme hanno conquistato il diritto di pregare con le stesse ritualità riservate per tradizione agli uomini, tra cui la preghiera proprio davanti al Muro del Pianto. In U.S.A e in Francia operano alcune rabbine. Il Vaticano, invece, resiste, tranne eccezioni, nella sua chiusura antistorica, nonostante l’apertura di papa Bergoglio al diaconato femminile, primo grado dell’ordine sacro, che consente di amministrare battesimo e matrimonio, condurre funerali e predicare. Le donne, ovunque hanno assunto incarichi di responsabilità, hanno svolto all’interno della loro religione funzioni critiche e propositive, mettendo in discussione immagini consolidate e ruoli stereotipati. Sono molto attive anche all’interno del cattolicesimo, pure italiano, in numerose e varie forme organizzative, e nel maggio scorso Anne Soupa, teologa e biblista francese, si è candidata al ruolo di arcivescova di Lione, non come atto provocatorio, ma per rivendicare una partecipazione reale alle scelte concernenti la vita della Chiesa.
Sono partita da molto lontano e arrivo ora al Novecento, a ieri. Cambia lo scenario mondiale. Nel 1912 la Cina diventò una repubblica e a metà del secolo iniziò l’esperienza della Repubblica Popolare Cinese. Con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 cadde l’impero zarista e iniziò l’esperienza dell’U.R.S.S. . Con la prima guerra mondiale finirono anche gli imperi austroungarico e ottomano. In Europa, nel Nord Africa e in Medio Oriente si consolidarono gli Stati nazione (status negato tuttora al Kurdistan). Nel 1948 venne istituito lo Stato di Israele, mentre la potestà statuale venne negata alla Palestina nonostante il pronunciamento dell’O.N.U. Nei decenni ’40- ’60 ottennero l’indipendenza politica dagli imperialismi europei numerosi Paesi asiatici e africani, che adottarono – almeno formalmente – il modello delle democrazie borghesi basato sulla rappresentanza, prevalente così in ambito mondiale. A seguito della Conferenza di Bandung del 1955 nacque nel 1961 il Movimento dei Paesi non allineati. Nel 1959 trionfò la rivoluzione a Cuba e a metà degli anni ’70 fu conquistata la riunificazione dei due Vietnam in un unico Stato socialista, che provocò uno smacco planetario alla superpotenza U.S.A. Sul finire del secolo terminò l’esperienza dell’U.R.S.S. lasciando senza sponda e alla mercè del capitalismo i movimenti operai e sindacali del mondo. Con il XXI secolo (nel 2006) vengono per così dire alla luce i B.R.I.C.S. (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e la Cina si avvia a diventare la prima potenza mondiale nell’ambito di una transizione di sistema. Nel settembre 1995 si era tenuta nei pressi di Pechino la Conferenza Mondiale sulle Donne, che ebbe come segretaria generale Gertrude Mongella, tanzaniana figlia di un contadino, e che sancì che i diritti delle donne sono diritti umani.
Più che delle regine rimaste (con un ruolo ormai solo formale) occorre allora occuparsi dei nuovi modi in cui, dall’inizio del Novecento, le donne partecipano al potere con incarichi istituzionali. Come non partire da Aleksandra Kollontaj, nel 1917 la prima donna nel mondo che ebbe l’incarico di ministra nel primo governo Lenin? Rivoluzionaria, analizzatrice del rapporto donna/comunismo, autrice di leggi per l’emancipazione femminile e per una nuova morale sessuale, saggista, ambasciatrice. Occorre dedicarle un intero convegno.
Negli Stati Uniti d’America una donna – Fannie Coralie Perkins – fu nominata ministra per la prima volta nel 1936, da parte di Franklin Delano Roosevelt – presidente del New Deal- , mentre per avere una donna premier bisognò aspettare gli anni ’50, con Suhbaataryn Yanjmaa in Mongolia. In Italia la prima fu Gisella Floreanini, ministra nell’autunno 1944 nella splendida e purtroppo brevissima esperienza della Repubblica partigiana dell’Ossola, quando ancora le italiane non avevano il diritto di voto. La prima nella Repubblica italiana fu Tina Anselmi, ministra dal 1976 al 1979.
Veniamo allora al diritto di voto, lotta fondamentale per coinvolgere le donne nella politica istituzionale e per realizzare una democrazia rappresentativa non dimezzata. I fatti non sono noti quanto sarebbe necessario. Una prima richiesta formale per il riconoscimento dei diritti delle donne fu presentata nel 1789 all’inizio della Rivoluzione francese, nei “Quaderni delle lagnanze” cui contribuirono anche alcune donne. Però la famosissima “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” – vanto della Rivoluzione – riguardava solo il genere maschile e Olympe de Gouges, che nel 1791 osò scrivere la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” venne decapitata, alla faccia della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. Il movimento suffragista, come movimento per chiedere il suffragio femminile alle elezioni nazionali, vide la luce in Gran Bretagna nel 1869 e ottenne il suo scopo solo nel 1928. Rivendicazioni analoghe sorsero in vari altri Paesi e via via il diritto fu riconosciuto: in Francia e in Italia solamente nel 1945 e in Svizzera addirittura nel 1971. Il primo Paese che concesse il voto alle donne fu la Nuova Zelanda nel 1893, a seguito delle lotte innescate da Kate Sheppard, una scozzese immigrata da giovane in Nuova Zelanda con la famiglia d’origine.
In Italia la lotta per il diritto di voto alle donne per le donne in sostanza è ancora ben lontana dall’essere vinta: nel nostro Paese la percentuale di donne elette nelle istituzioni nazionali e locali è ancora bassa, anche se con una tendenza alla crescita (ad es. le parlamentari sono il 35% del totale contro oltre il 50% del Rwanda e di Cuba); le importantissime leggi che favoriscono la presenza femminile nelle istituzioni elettive ( ad es. quella sulla doppia preferenza di genere, la legge 215 del 2012) sono recenti e ancora poco note; pare che l’astensionismo sia maggiore tra le donne che tra gli uomini; vi sono ancora indifferenza e diffidenza nel votare le donne, sicuramente tra gli uomini, ma anche tra le stesse donne: se queste, essendo il 52% della popolazione e presumibilmente anche del corpo elettorale, votassero tutte anche al femminile, porterebbero la rappresentanza di genere a ottimi livelli. Ma un elemento a mio parere è ancora più preoccupante e cioè il fatto che molte appartenenti al movimento delle donne considerano la partecipazione al voto come compromissione nei confronti di un sistema patriarcale da abbattere e, fin dall’origine, prendono le distanze dalle donne con incarichi istituzionali e di partito accusandole di agire comportamenti maschili. Senza tener conto che ciò è inevitabile, se le donne nelle istituzioni sono poche e vengono lasciate sole dal movimento, se – contemporaneamente nei palazzi e nelle piazze – non si concordano e non si sostengono congiuntamente obiettivi, piattaforme e iniziative.Nessuna donna dovrebbe poi dimenticare che le fondamentali leggi che hanno liberato il nostro genere dall’oscurantismo più becero (tutela delle lavoratrici madri – legge 1204/1971- , riforma del diritto di famiglia – legge 151/1975 -, consultori pubblici – legge 405/1975 -, interruzione volontaria di gravidanza – legge 194/1978 – ) furono sì ottenute dalle donne nelle vie e nelle piazze, ma – anche – dalle donne del P.C.I. in Parlamento.
Gli aspetti concernenti il voto delle donne ci offrono quindi un importantissimo terreno di azione: 1) per coinvolgere quante più donne è possibile nell’attività politica in tutte le sue forme – anche nei partiti, ineludibili organizzazioni decisionali sancite dalla Costituzione, che assolutamente non possono essere lasciate solo agli uomini -; 2) per coinvolgere le donne nel voto in generale e soprattutto in quello per le donne; 3) per riuscire a dialogare con le donne del movimento e a costruire con loro un unico grande corpo collettivo in lotta per la liberazione delle donne dal capitalismo e dal patriarcato, usando tutti gli strumenti a disposizione: anche il voto. Riprenderò tale questione.
Il Novecento – secolo breve o lungo che dir si voglia – è stato caratterizzato da varie forme di protagonismo femminile: cape di Stato e di governo (79 dagli anni ’50 in poi); ministre innovatrici; in U.S.A tre Segretarie di Stato ( cioè ministre degli Esteri, carica fondamentale in una superpotenza); grandi pensatrici politiche di vari orientamenti; i movimenti suffragisti prima e quelli femministi poi; le donne contro le guerre e contro le dittature (le Madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires e le Donne in Nero in vari Paesi, ad es.); le attiviste dei popoli indigeni del Centro e Sud America (una per tutte: l’honduregna Berta Caceres), dell’Africa e dell’ Asia (la più nota fu Medha Paktar, la signora di Narmada in India) contro lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle multinazionali imperialiste (apertura di nuove miniere, estrazione del petrolio, taglio delle foreste, costruzione di grandi dighe, privatizzazione del servizio idrico); le numerose donne che in varia forma – come scienziate, saggiste, giornaliste, attiviste, ministre, cape di istituzioni – lottarono e lottano tuttora per l’ambiente e per la salute. Già da questo elenco traspaiono i vari modi in cui si articola il rapporto tra donne e politica, i vari modi in cui le donne fanno concretamente politica.
Inserisco qui la biografia minima delle principali donne che operarono per l’ambiente in ambito mondiale: solo le principali, le pioniere.Inizio con Ellen Swallow-Richards, chimica statunitense, la prima donna che ottenne una laurea al Massachussetts Institute of Tecnology di Boston nel 1873, considerata fondatrice dell’ecologia e dell’ingegneria ambientale, in quanto per prima compì un lavoro d’indagine sulle risorse idriche del suo Stato, produsse le prime tabelle di purezza dell’acqua e stabilì i primi standard di qualità delle acque. Scrisse 15 libri, oltre a relazioni e articoli, si occupò anche della qualità dell’aria e della progettazione di edifici più sani e sicuri e diede vita all’ecologia umana, nuova disciplina composta da due branche principali: l’educazione ambientale e l’educazione alimentare. Proseguo con Rachel Carson, biologa statunitense che nel 1962 pubblicò “Primavera silenziosa”, un corposo saggio che per la prima volta si occupava degli effetti dell’uso in agricoltura degli insetticidi chimici e delle altre sostanze inquinanti e cancerogene: effetti letali sugli esseri umani, sugli animali e sulle piante. A seguito di questo saggio, nel 1970, si ottenne la messa al bando del DDT. I grandi gruppi chimici la definirono “isterica”, oltre che esagerata…(la messa al bando del DDT non risolse il problema dei pesticidi: ne furono inventati altri, perché il capitalismo è un mostro dalle mille teste pensanti e ancor oggi stiamo lottando, ad es., per la messa al bando del glifosato, erbicida cancerogeno).
Carolyn Merchant, docente di storia, filosofia ed etica dell’ambiente all’Università di California a Berkeley, con il suo “La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica” del 1980 contestò la visione meccanicistica e deterministica della natura frutto del pensiero di Galilei, Newton e Cartesio, funzionale al capitalismo nascente. La rivoluzione scientifica del XVII aveva infatti sostituito la concezione della natura come organismo vivente con la natura come macchina, come risorsa da conoscere per controllarla e per sfruttarla. Merchant parte dal parallelismo officiato dal pensiero dominante tra la natura – vista come femmina e quindi imprevedibile e da tenere sotto controllo – e la donna – vista come natura e quindi come irrazionale, inaffidabile e comunque da controllare e utilizzare – ; in seguito ripercorre criticamente la storia del pensiero scientifico, contestando l’ideologia dell’oggettività e mettendo in luce importanti figure femminili cancellate dalla storia ufficiale, e percepite ai loro tempi come anomale e trasgressive. Propone quindi i valori necessari a ribaltare i concetti di dominio e di sfruttamento per riattivare un rapporto organico e collaborativo con la natura, di cui, come esseri umani, facciamo parte.
Gro Harlem Brundtland, la prima ministra norvegese che presiedette e condusse in porto la Commissione mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, la quale redasse il rapporto “Il futuro di noi tutti”, presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1987: rapporto assai ben documentato su tutte le minacce che incombevano – e incombono tuttora in misura sempre crescente – sulla sopravvivenza del genere umano e dell’ambiente adatto alla vita, con le opportune raccomandazioni per affrontarle.
Laura Conti, medica, scienziata, scrittrice, comunista, analizzando la fuoriuscita della diossina dall’Icmesa di Seveso nel 1976, fondò l’ambientalismo scientifico in Italia. Nel 1980 fondò la Lega per l’Ambiente, l’attuale Legambiente. Il suo libro fondamentale, “Questo pianeta” del 1980, contesta le illusioni (tuttora vive) sulle illimitate capacità degli esseri umani di risolvere i problemi ambientali con la tecnologia e le illusioni sulle illimitate capacità della natura di rigenerarsi e si scaglia in particolare contro l’agricoltura industrializzata. Con la sua frase manifesto “vogliamo un pianeta, non vogliamo una stella!” avvertiva – già quarant’anni fa – che la permanenza della vita sulla terra era in pericolo e proponeva quattro programmi non rinunciabili: la lotta agli inquinamenti, il recupero e la stabilizzazione dei suoli, la difesa dei patrimoni genetici, il programma energetico.
Wangari Maathai, keniana, biologa, attivissima alla Conferenza di Rio de Janeiro su Ambiente e sviluppo del 1972, per molti anni viceministra dell’Ambiente e fondatrice del Green Belt Movement, che dal 1977 in poi ha piantato 45 milioni di alberi nel suo Paese. Scrisse vari libri e ricevette riconoscimenti internazionali, tra cui, nel 2004, il Premio Nobel per la Pace in base all’assunto che solo il ripristino e poi la cura dell’ambiente possono garantire alle popolazioni del mondo una vita dignitosa per tutti e tutte e, quindi, la pace. Non può mancare un accenno a Vandana Shiva, anche se è quella oggi – qui da noi – maggiormente nota e tenuta in considerazione: fisica quantistica ed economista, dirige il Centro per la Scienza Tecnologia e Politica delle risorse naturali di Dehra Dun in India. Ha scritto moltissimi saggi di estrema importanza ed è considerata la teorica più nota di una nuova scienza: l’ecologia sociale.
(Per inciso invito caldamente alla lettura di “Scienziate nel tempo. 100 biografie”, da Teano di Crotone e Ipazia di Alessandria alle scienziate viventi, dovuto a Sara Sesti e a Liliana Moro della Libera Università delle Donne di Milano, Ledizioni, 2018).
E non possiamo certo dimenticare che l’attuale movimento Friday’S For Future è stato innescato dall’intraprendenza e dalla forza di una donna, una giovanissima donna: Greta Thumberg.
Dopo l’imprescindibile menzione delle pioniere dell’ambiente avanzo qualche nome di donne con incarichi istituzionali protagoniste nel loro Paese ma anche – in varia misura – della politica mondiale, date le interconnessioni che caratterizzano il mondo moderno e contemporaneo. Ricordo i loro nomi, indipendentemente dal fatto che siano state di sinistra o di destra, perché tocca in primo luogo a noi donne tenere le protagoniste alla ribalta della conoscenza e della cultura, anche evidenziandone i limiti e contrastandone le posizioni che non condividiamo. In Europa Margaret Thatcher , Martine Aubry (la ministra francese della settimana lavorativa di 35 ore), Gro Harlem Brundtland e Angela Merkel; Golda Meir in Israele; Benazir Bhutto, Indira Gandhi, Sirimavo Bandaranaike, Cory Aquino e Aung San Suu Kyi in Asia; Wangari Maathai ed Ellen Johnson Sirleaf in Africa; Evita Peron, Violeta Chamorro, Michelle Bachelet, Dilma Rousseff e Cristina Fernandez de Kirchner in America centrale e meridionale. Ricordo in particolare Benazir Bhutto in Pakistan e Indira Gandhi in India, entrambe grandi statiste, entrambe figlie di uomini di potere, il che aveva loro aperto la strada in contesti in cui altrimenti non avrebbero mai potuto accedere alla massima responsabilità politica; non a caso assassinate entrambe da integralisti religiosi.
Consiglio vivamente a noi donne oggi variamente impegnate in politica, la lettura di “Prime donne” di Ritanna Armeni, in cui, analizzando in particolare le figure e le campagne elettorali di Ségolène Royal in Francia e di Hillary Clinton in U.S.A., mette in luce tutte le possibili articolazioni del rapporto donne-potere politico ai massimi livelli. Armeni si pone e ci pone numerose domande sui contenuti storicamente dati di tale potere – finora sempre determinati da uomini – e sul perchè le donne dovrebbero desiderare il potere e sul che farne: ovviamente per proporre un diverso modello di potere, diverso nei contenuti e nelle modalità di esercizio. Armeni analizza anche tutti gli ostacoli posti dal genere maschile alla scalata delle donne al potere statale supremo, le reazioni ora sarcastiche ora rabbiose al loro tentativo, le considerazioni sul loro aspetto, abbigliamento e vita sessuale e indaga sulle ragioni profonde di tale comportamento maschile. Propone quindi una possibile spiegazione, che condivido: se un tempo la ragione di tanta misoginia era un senso di superiorità maschile con punte di disprezzo, ora che le donne capaci e determinate sono più numerose e si presentano con modalità nuove, alcune anche aspirando a capeggiare repubbliche presidenziali, si è insinuata la paura, addirittura il terrore che lo Stato maschio, lo Stato potenza, lo Stato conquistatore, cada in mani, menti e cuori femminili. Aggiungo di mio che gli U.S.A., con gli Stati del Sud ancora tanto impregnati di razzismo, hanno eletto presidente perfino un afroamericano, un nero, ma non una donna, una donna che svolse un ruolo importante nella Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino del 1995.
Attualmente nel mondo vi sono 21 Stati, sui 195 membri dell’ O.N..U., con cape di Stato o di governo, tra cui Germania, Finlandia, Grecia, Islanda, Slovacchia, Croazia, Etiopia, Namibia, Bangladesh, Taiwan e Nuova Zelanda, e numerose sindache di grandi città in più continenti. Soprattutto in Europa ci sono non poche donne a capo di partiti e di istituzioni bancarie . Ciò non comporta, ovviamente, alcun passo in avanti sulla strada della liberazione femminile, ma questo dato, se opportunamente divulgato e fatto valere in questa nostra arretrata Italia, potrebbe con il tempo far superare i luoghi comuni, ancora tanto diffusi nel nostro Paese, sull’incapacità delle donne ad assumere ruoli rilevanti.
Dal 16 giugno 2019 una donna – Ursula van der Leyen, medica e politica tedesca – guida la Commissione Europea in qualità di presidente e ha promosso un programma di nuova frontiera verde che, seppure con limiti riguardanti in particolare le risorse attivate e da attivare nel tempo, rappresenta un salto di qualità rispetto alla precedente politica ambientale dell’Unione Europea.
Nel Novecento italiano vi furono grandi figure tra le 21 Madri costituenti, soprattutto Teresa Noce e Lina Merlin; Tina Anselmi fu un’ottima ministra, tre donne furono presidenti della Camera dei Deputati. Varie parlamentari ottennero negli anni ‘70 leggi fondamentali, in primo luogo per le donne e per la democratizzazione, la laicizzazione e la modernizzazione dell’intero Paese. Nel 2003 parlamentari di vario orientamento ottennero un’aggiunta al primo comma dell’art. 51 della Costituzione, secondo cui la Repubblica non si deve limitare a sancire formalmente l’uguaglianza tra donne e uomini nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, ma deve promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità nei confronti di tale accesso. Pochissime furono a capo di partiti politici: Camilla Ravera per il Partito Comunista d’Italia durante gli anni della clandestinità (la prima a essere nominata senatrice a vita), e, assai più recentemente, Grazia Francescato per i Verdi, Adelaide Aglietta, Rita Bernardini ed Emma Bonino per il Partito Radicale.
Tra le politiche italiane la mente e il cuore insieme mi portano a parlare di Livia Turco che, allora comunista, nel 1986 scrisse e promosse insieme ad altre “la Carta itinerante delle donne comuniste”, poi approvata dalla direzione del PCI: magnifica esperienza di pensiero, di passione e di mobilitazione, poi tristemente affossata dalla cosiddetta “svolta” del 1989, dallo scontro tra il sì e il no al cambiamento del nome del partito, che divise anche le donne della “Carta”. “Proponiamo di costruire – scrissero le donne della “Carta” – nella società e nelle istituzioni della politica una “forza” delle donne che non può che derivare dalle donne stesse attraverso una strategia di relazioni e di comunicazione tra noi”. Su questa fondamentale esperienza hanno scritto, rispettivamente nel marzo e nel settembre 2017, Letizia Paolozzi e Alberto Leiss in “C’era una volta la Carta delle donne. Il Pci, il femminismo e la crisi della politica” e Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli in “Al lavoro e alla lotta. Le parole del PCI”.
Sfascio del nostro Paese, crisi della sinistra e sua scarsissima rilevanza: per contribuire a emergere da questa situazione non si può allora che costruire una forza delle donne nelle istituzioni della politica e nella società. Forza divenuta ancor più necessaria di fronte alle peggiorate condizioni del Paese a seguito della pandemia da Covid 19, che ha messo ancor più in evidenza i guasti prodotti da una gestione capitalistica della cosa pubblica, soprattutto riguardo all’ambiente, alla sanità e alla scuola. Ma tra quali soggetti in cui le donne abbiano un ruolo politico?
Tra le donne dei partiti che condividono una prospettiva anticapitalista e le donne dei sindacati, della Cgil e dei sindacati di base, in primo luogo. I sindacati non si pongono l’obiettivo di mutare i rapporti di produzione capitalistici, ma si pongono comunque come soggetti di trasformazione sociale e, in quanto tutelano i lavoratori e le lavoratrici dipendenti e falsamente autonomi/e, chi cerca lavoro e chi ha concluso il suo ciclo lavorativo o ne è stato espulso (per infortunio, malattia, licenziamenti, delocalizzazioni subordinate alla ricerca del maggior profitto possibile), sono soggetti politici oggettivamente anticapitalistici , che ne abbiano più o meno coscienza e volontà. Nella CGIL le donne sono – da anni – sostanzialmente la metà dei componenti gli organismi dirigenti a ogni livello; le sindacaliste hanno quindi un ruolo politico e una responsabilità che devono diventare realmente determinanti nelle scelte rivendicative. Le dirigenti della CGIL a tutti i livelli devono ottenere come priorità assoluta dell’intera organizzazione il deciso miglioramento della condizione delle donne e la sparizione delle disuguaglianze di genere, nel lavoro e nella vita: per l’importanza del lavoro retribuito e garantito per la liberazione delle donne, per le specificità che la differenza del corpo femminile comporta rispetto a quello maschile, anche per quanto riguarda i fattori di rischio nei luoghi di lavoro, per il superamento delle specifiche oppressioni e discriminazioni che le lavoratrici a tutti i livelli subiscono in quanto donne – non riassorbibili nella subalternità di classe – , per l’abbattimento dei ruoli sociali codificati.
La contraddizione di genere infatti non annulla la contraddizione di classe e non si contrappone ad essa, in quanto si intrecciano e si cumulano: le donne lavoratrici subiscono sia la dominazione di classe, sia l’oppressione di genere.
Nella carrellata storica non può mancare un cenno ad almeno tre grandi sindacaliste, perché anche nei soggetti collettivi alcune individualità sono più importanti di altre e lasciano maggior segno di sè: Carlotta Orientale (1893-1980), militante dell’Unione Sindacale Italiana, alla guida di lotte operaie e poi – durante la prima guerra mondiale – segretaria della Camera del Lavoro di Terni, centro industriale in cui allora la classe operaia rappresentava circa il 70% della popolazione; Argentina Altobelli (1866-1942), che nel 1906 contribuì alla nascita della Federazione nazionale dei lavoratori della terra della Cgil e ne fu segretaria dalla fondazione allo scioglimento a opera del fascismo (durante il suo mandato furono conquistate l’abolizione del lavoro a cottimo e la giornata di otto ore); Teresa Noce (1900-1980), multiforme combattente dalla lunga storia (guerra civile spagnola, Resistenza italiana, mensile “Noi Donne” e Pci) e segretaria generale del sindacato dei tessili della Cgil dal 1947 al 1956.
Fino ad adesso ho parlato di donne “importanti” in varie situazioni e in vari ruoli, ma le donne ci sono sempre state nella storia e nell’economia: le più giovani, prima della maternità, erano cacciatrici nelle società equalitarie delle origini, “inventarono” l’agricoltura, lavorarono sempre nei campi, nelle botteghe artigiane, nei conventi e nelle case: non retribuite, il che ne ha sancito l’irrilevanza sociale e politica. Le donne sono state protagoniste nei momenti cruciali della storia, come ad es. le popolane di Parigi alla presa della Bastiglia nel 1789, le comunarde nella Comune di Parigi del 1871 e le operaie tessili di Pietrogrado all’inizio della Rivoluzione d’Ottobre nel 1917. Durante la seconda guerra mondiale parteciparono alla Resistenza contro il nazifascismo in vari Paesi europei, con un fondamentale ruolo di supporto che solo recentemente è stato messo in luce, e anche in armi; in alcuni casi furono pure efficacissime combattenti, come ad es. nel 1941 le giovani aviatrici sovietiche nella regione di Stalingrado, le “streghe della notte”, terrore degli occupanti nazisti. Queste ragazze, con i loro fragili ma duttili biplani, combatterono sì contro gli invasori, ma – prima ancora – avevano combattuto contro la diffidenza e i pregiudizi maschili, che le ritenevano incapaci di combattere. In questi ultimi tempi sono da ammirare anche le combattenti curde contro l’ISIS.
Le donne “inventarono” l’agricoltura. Nelle società preistoriche, matriarcali ed equalitarie, in cui veniva adorata la Grande Dea Madre, dopo aver messo al mondo i figli, le donne dovevano rinunciare alla caccia per dedicarsi alle attività di cura: imparando a conoscere la vegetazione spontanea, provando e riprovando poi a usarla e a riprodurla, hanno dato vita all’agricoltura, la quale ha progressivamente consentito di passare da società tendenzialmente nomadi a società stanziali e nutrite con continuità. Ma – paradosso della storia – il progresso portato dall’avvento dell’agricoltura ha consentito pure la formazione di surplus alimentari e di persone che potevano dedicarsi ad altro rispetto al lavoro manuale della terra; persone che si sono appropriate di questo surplus, costituendo gruppi dominanti e via via classi sociali differenziate. La costituzione di questi gruppi dominanti ha sostanzialmente coinciso con l’avvento del patriarcato, del dominio maschile sul mondo. Tuttora però la maggior parte delle persone che nel mondo coltivano la terra sono donne: le donne nutrono il pianeta.
Più sopra ho parlato delle sindacaliste italiane più significative, che però, da sole, avrebbero potuto fare ben poco. Fondamentali furono le storiche lotte di varie categorie di lavoratrici a partire da poco dopo la Liberazione: le tabacchine al sud, le operaie tessili nelle fabbriche del nord, le mondine della pianura padana, le mezzadre, le braccianti e le casalinghe del sud nelle occupazioni delle terre incolte per ottenere la riforma agraria, le impiegate statali. A significare che la storia e la politica possono essere fatte da ognuna di noi, insieme alle altre, e sono fatte in concreto da ogni donna, giorno per giorno.
A Cavriglia, paese della Valdarno di minatori e contadini socialisti e comunisti, il 1° marzo 1950 (come ci ha narrato Laura Bottai) i minatori occuparono una miniera di lignite per evitare chiusura e licenziamenti; durante l’occupazione, durata 100 giorni, le donne del paese misero in funzione 3 mense, allestirono una scuola per i figli con la collaborazione di alcuni maestri e soprattutto – loro che non erano mai uscite dal paese – girarono per tutta la Toscana esponendo le ragioni della lotta e raccogliendo indispensabili aiuti in denaro e in generi alimentari. Ecco un altro esempio, oltre alle lotte sindacali, della forza delle donne. Per una storia delle donne che non furono né aristocratiche, né borghesi, né cittadine, né intellettuali – la maggioranza delle donne -, dei loro ruoli, del loro impegno e delle loro lotte nel tempo, dalla preistoria in poi, occorre leggere l’innovativo libro di un’antropologa, Michela Zucca: “Storia delle donne da Eva a domani”, Edizioni Simone, 2010. Tale libro narra la storia sociale delle donne al di là degli avvenimenti estemporanei più eclatanti, narra il mondo quotidiano delle solidarietà femminili per poter sopravvivere, il mondo delle donne che nel tempo tramandarono miti e tradizioni, mestieri e segreti della natura e gestirono le nascite e le morti.
Non possiamo certo dimenticare le donne che fecero politica con il loro pensiero e con i loro libri: a cavallo tra Ottocento e Novecento le pensatrici particolarmente vicine a noi del PCI, come Clara Zetkin (1857-1933) e Rosa Luxemburg (1871-1919). E poi le socialiste Flora Tristan (1803-1844), Anna Kuliscioff (1855-1925) e Angelica Balabanoff( 1877-1965). E poi tante altre di vario orientamento: Hannah Arendt (1906-1975), Simone de Beauvoir (1908-1986), Simone Weil (1909-1943), Rossana Rossanda (1924-2020), Agnes Heller (1929-2019), Luce Irigaray (1930), Angela Davies (1944), che mi piace ricordare in quanto interconnesse i rapporti di genere, razza e classe. E ancora le economiste, in quanto l’economia (etimologicamente “regola della casa” ), e soprattutto il come si reperiscono e si allocano le risorse pubbliche, è di per se stessa politica: la Premio Nobel 2009 Elinor Ostrom, esperta di gestione dei beni collettivi e delle forme di autogoverno delle risorse da parte delle collettività locali, e la Premio Nobel 2019 Ester Duflo, per gli studi e le sperimentazioni volte a contrastare la povertà nei Paesi in via di sviluppo a partire dal come garantire a tutte e a tutti l’accesso all’istruzione. Faccio notare il particolare approccio dato alla loro attività da queste donne rispetto agli economisti uomini.
Tra le pensatrici politiche annovero le donne di vario orientamento (Alessandra Bocchetti, Giulia Bongiorno, Francesca Comencini, Marilisa D’Amico, Michela Marzano, Lea Melandri, Luisa Muraro, Lidia Ravera) che nel 2014 pubblicarono “In contropiede. Le donne rileggono la Costituzione”. La Carta fondamentale è e rimane complessivamente avanzatissima – anche per merito di alcune delle Madri costituenti – , ma per quanto riguarda la condizione femminile risente dei tempi in cui fu elaborata e in sostanza presenta le donne come soggetto debole da tutelare, rispecchiando una visione maschile del mondo, e contiene un falso antropologico e storico quale quello, contenuto nell’art. 29, secondo cui la famiglia sarebbe una “società naturale fondata sul matrimonio”. Annovero ancora tra le pensatrici politiche Giordana Masotto (femminista della Libreria delle Donne di Milano), Luisa Pogliana (saggista esperta di management femminile) e Michela Spera (della segreteria nazionale della Fiom), che hanno iniziato a lavorare sul ripensamento della contrattazione sindacale tenendo conto della differenza di genere.
Dopo aver trattato la partecipazione delle donne a istituzioni, partiti e sindacati passiamo ad altre forme della politica.
Da qualche decennio a questa parte si sono affacciati alla scena nuovi soggetti, a opera di persone che rifiutano il modello della rappresentanza e la gerarchia degli organismi dirigenti basate sulla selezione e rifiutano anche le mediazioni necessarie a far coesistere nel tempo posizioni divergenti; tali persone rivendicano il fare politica in prima persona e l’assumere direttamente proposta e responsabilità. Tali soggetti sono per un verso i movimenti e i forum ambientalisti internazionali e nazionali, e per l’altro i comitati di cittadini e cittadine a un livello locale variamente articolato secondo le necessità. I comitati generalmente nascono su obiettivi e lotte specifiche, anche se spesso non manca un inquadramento di tali lotte in visioni politiche complessive. I comitati si aggregano talora in reti territorialmente più ampie. E’ evidente – e indispensabile al loro concreto funzionamento – che in tali soggetti si formano i e le leader naturali, che si conquistano autorevolezza sul campo, ma non passano attraverso forme elettive e senza bisogno di attivare i tradizionali meccanismi di potere. I punti di forza di movimenti e comitati stanno nella competenza e nell’entusiasmo con cui operano; la debolezza sta nel loro andamento carsico, nella durata limitata nel tempo (generalmente collegata alla conclusione del progetto per cui si erano attivati), nella dispersione di forze che si determina quando cessano di agire, anche se spesso alcuni/e loro componenti danno vita o contribuiscono in seguito ad altri comitati di lotta. In Italia sono stati e sono tuttora attivissimi ovunque comitati contro le cosiddette “grandi opere” distruttive del territorio e delle risorse pubbliche (Tav in Val di Susa, autostrade un po’ dappertutto, Tap nel Salento, trivelle in mare e in terra, ponte sullo Stretto di Messina, e, ultima novità, il tunnel sotto…, ecc.), contro le diffusissime fabbriche della morte (emblematiche l’Ilva di Taranto, la Caffaro di Brescia e nel Vicentino la Mitemi con l’inquinamento delle acque da Pfas, composti perfluoroalchilici) , contro opere militari ( ancora a Vicenza il Comitato No Dal Molin e il No Muos in Sicilia e contro la produzione di armi in Sardegna), per la tutela di grandi parchi e di verde urbano e di edifici storico/artistici pubblici, contro la speculazione immobiliare e contro gli sfratti, per la riqualificazione delle periferie e per più consistente edilizia popolare, contro la vendita e la svendita e comunque la sottrazione all’uso pubblico di aree pubbliche (come ad es. gli ex scali ferroviari a Milano), per la gestione pubblica del servizio idrico integrato, contro ogni possibile forma di snaturamento di un contesto urbano (a Venezia, ad es., il Comitato contro le grandi navi). Comitati molto attivi anche a Milano, soprattutto contro la speculazione immobiliare, per la difesa del verde pubblico e contro l’inquinamento dell’aria, per cui erano nate le “Mamme antismog”, gruppo poi trasformatosi in “Cittadini per l’aria”. In tali soggetti le donne sono numerosissime, spesso la maggioranza, così come talora sono promossi da donne ( ad es. quello vicentino contro la Mitemi), proprio perché le modalità di formazione degli obiettivi – tutti in qualche modo collegati alla tutela del territorio, della città, dell’ambiente, del clima e soprattutto della salute, considerati come beni comuni – e le modalità di funzionamento sono più consone al sentire e all’operare delle donne.
Vi sono state docenti di pianificazione territoriale, come ad es. Silvia Macchi all’Università La Sapienza di Roma, che insegnarono non la “manutenzione” del territorio (approccio statico, meccanico, di pura e semplice conservazione dell’esistente, quale che sia), ma la sua “cura” (approccio dinamico, anche rigenerativo quando necessario, al territorio, al suolo e al paesaggio). E poiché più della metà della popolazione mondiale vive ormai nelle città, la riflessione e l’impegno politico in tal senso da parte delle donne è diventato ineludibile. Vi sono state e vi sono tuttora in varie città d’Italia (da Milano a Livorno, da Firenze a Catania, da Bologna a Foggia, da Bergamo a Palermo, a varie altre più piccole) associazioni e gruppi di donne che lavorano per la città femmina, per la città femminista, per la città transfemminista; per una città che non sia più quella patriarcale a dimensione solo dell’uomo adulto, sano, con un buon lavoro e reddito elevato, automunito; che non sia più la città predatoria e intrisa di disuguaglianze che succhia le energie e la salute di chi la abita.
Le donne vogliono una città a misura di donne, bambini/e e vecchi/e, e – quindi – di tutti, di ogni condizione socioeconomica, etnia e cultura; una città accogliente, sana e bella in ogni sua parte, il cui governo sia partecipato; una città che si prenda cura dei e delle abitanti e in cui gli e le abitanti si prendano cura della città. Tra tante associazioni segnalo solamente la “Città Felice” di Catania, che nel luglio 2000 aveva dato impulso alla rete delle “Città Vicine”, e “Parco Piazza d’Armi – Le Giardiniere” di Milano, che da anni lottano contro il Comune per far rimanere a verde pubblico una vasta area ex demanio militare, che in trent’anni di abbandono umano la Natura ha rinaturato rendendola una riserva ricca di biodiversità. E nel 2003 il gruppo “Donne ambiente città” della Marcia Mondiale delle Donne (coordinamento italiano) aveva distribuito in 4 lingue al Forum sociale europeo di Parigi un documento dal titolo “Prendiamoci cura del mondo: dalla casa alla città al pianeta”.
Immaginarono una città abitata e governata da donne la scrittrice italofrancese Christine de Pisan, con la “Città delle dame”, uscito nel 1405, e la romanziera e poeta nicaraguense Gioconda Belli con “Nel paese delle donne”, edito nel 2010.
Le più recenti forme della politica come movimenti, forum e comitati hanno un grande ruolo: ma ne conservano uno molto importante anche i partiti politici, riconosciuti come determinanti dall’art. 49 della Costituzione. I partiti hanno una struttura organizzativa che ne facilita il radicamento territoriale e la durata nel tempo e possono offrire punti di riferimento territoriali alle varie forme di lotte sociali; rimangono quindi soggetti fondamentali dell’agire politico, ma vivono una evidente crisi – anche di rappresentanza e di consistenza – pure a sinistra. I comitati di base, da parte loro, si scontrano con istituzioni che stanno dalla parte dei grandi potentati economico/finanziari e militari, sempre più spesso operativi in ambito sovranazionale. Che senso hanno allora – in tale disastrosa situazione – la frequente reciproca indifferenza o – peggio – la reciproca diffidenza tra partiti di sinistra e anche anticapitalisti e comitati di base? talora la reciproca aperta ostilità e talora il reciproco scherno? A chi giovano?
Tornando ai movimenti ambientalisti, in prevalenza composti da giovani – uomini e donne – anch’essi vedono come soggetti da cui stare lontani come la peste i partiti, i partiti in quanto tali indipendentemente dai loro obiettivi e dalle loro proposte, come se fossero tutti uguali. Forse è il timore di diventarne subalterni. Forse c’è nei movimenti per un verso un rifiuto della gerarchia e della rappresentanza che caratterizzano le forme più tradizionali della politica e parallelamente un bisogno di purezza, di mantenimento di identità, omogeneità e coesione interna che danno sicurezza. Ma per l’altro verso c’è in essi una sopravvalutazione della loro forza innovativa, una sensazione di onnipotenza che – tragicamente – appanna anche la realtà dell’enorme squilibrio esistente nei rapporti di forza tra i soggetti in campo: i movimenti da una parte e i potentati economico/finanziari/militari dall’altra; l’enorme squilibrio di forza esistente tra soggetti più o meno coscientemente anticapitalisti da una parte e la piovra del capitalismo dall’altra. Perché non è possibile ragionare in termini di alleanza, di azione comune, di collaborazione, di continuità nel tempo oltre obiettivi a breve scadenza, facendo in modo che ogni forma della politica mantenga la propria autonomia e le proprie caratteristiche? Perché soggetti organizzati come partiti e sindacati da una parte e soggetti spontanei come movimenti e comitati dall’altra non riconoscono reciprocamente, con pacatezza e razionalità, le proprie differenze, e non traggono compensazione e vantaggio reciproco da tali differenze? Il tutto per mirare al consolidamento degli obiettivi comuni, che pur – spesso – ci sono. I partiti possono offrire – lo risottolineo – la solidità e la continuità della struttura organizzativa che mancano a movimenti e comitati, e questi possono offrire la carica innovativa, l’ entusiasmo e la capacità di mobilitazione che in questa fase difettano ai primi.
A mio parere il rifiuto di collaborare per obiettivi condivisi, e fintantochè rimangono condivisi, è indice di timore e di debolezza, sia da parte dei partiti, sia da parte di movimenti e comitati di base.Le donne, proprio le donne, potrebbero e dovrebbero innescare questo processo di avvicinamento e di unità d’azione, in quanto il capitalismo è un sistema di dominio maschile, pensato e attuato da menti, corpi e ormoni maschili. In prima linea contro il capitalismo –conseguentemente – non possono che esserci le donne.
Continuando la carrellata sulle forme in cui le donne fanno politica, nell’ambito dell’associazionismo femminile cito solamente l’Unione Femminile Nazionale, nata a Milano nel 1899 per l’elevazione e istruzione della donna e per la difesa dell’infanzia e della maternità, e l’Unione Donne Italiane, costituita di fatto nel 1944 a Napoli e poi ufficialmente nel 1945 dalle donne comuniste e socialiste; divenuta in seguito – nel 2004 – Unione Donne in Italia per comprendere anche le immigrate, le nuove italiane . L’UDI ha al suo attivo soprattutto la fondamentale proposta di legge di iniziativa popolare sulla rappresentanza paritaria nelle sedi decisionali “50 e 50 ovunque si decide”, del 2006, arrivata in Parlamento e lì lasciata morire, e la piattaforma “Per una contrattazione di genere”, del 2017.
Ecco due frasi conclusive di tale piattaforma. “La proposta di una contrattazione di genere vuole interrogare in modo specifico le istituzioni, sia nazionali che locali (anche nel dialogo con soggetti diversi: donne e uomini, associazioni, imprese, sindacati, servizi, utenti, associazioni di categoria, ecc.) e può davvero essere un’occasione di svolta per cambiare il volto della contrattazione sul lavoro e l’espressione complessiva di un diritto del lavoro che necessita di essere urgentemente rifondato,…, rimettendo al centro donne e uomini con i loro corpi e le loro relazioni”. E ancora “Vogliamo aprire una contrattazione di genere perché tutte le decisioni politiche riguardano la nostra vita: le donne non sono il problema, ma parte fondamentale della soluzione”.
Ci sono poi le associazioni internazionali, come ad es. la Federazione Democratica Internazionale delle Donne, e l’Associazione Donne della Regione Mediterranea – A.W.M.R., di cui pure sarebbe interessante parlare, di cui fa parte e scrive Ada Donno.
E poi c’è il grande movimento delle donne, internazionale e nazionale, che dal 2000 a oggi ha assunto via via in Italia le forme del Coordinamento italiano della” Marcia mondiale delle Donne”, di “Usciamo dal silenzio”, di “Se Non Ora Quando” e, da quattro anni a questa parte, di “Non Una Di Meno”; movimento nato in Argentina e ormai divenuto quasi planetario, insieme femminista e anticapitalista. In questo sta la sua straordinaria importanza, come nel fatto di essere composto da donne di ogni età, dalle femministe cosiddette storiche a moltissime giovani e giovanissime; movimento che lotta contro la violenza sulle donne, violenza esercitata non solo dai compagni ed ex compagni di vita, ma dall’intero sistema, che è insieme capitalista e patriarcale.
Quel fondamentale movimento di pensiero e di azione che chiamiamo femminismo, con le sue varie ondate e le sue varie articolazioni di pensiero e territoriali, costituisce una rivoluzione culturale e politica di portata immensa, perché riguarda oltre la metà del genere umano e perché prefigura un cambio di civiltà: si proponeva infatti fin dall’inizio di mettere in discussione i ruoli sociali codificati per millenni, i rapporti di potere uomo-donna, la subalternità del genere femminile e l’oppressione esercitata dal genere maschile su quello femminile in ogni ambito e in ogni tipo di società governata dagli uomini, sia essa capitalista, socialista o di transizione: in sintesi ha messo in luce la parzialità del maschile come valore (in contrapposizione a una sua presunta universalità) e si propone di sovvertire un ordine dato per millenni come “naturale” e la liberazione delle donne mediante il superamento del patriarcato, antico di vari millenni; patriarcato che dunque è ben più antico del capitalismo, ma è stato da questo assunto in quanto funzionale a mantenere divisioni nel corpo sociale, come sono le divisioni di genere, anche all’interno delle stesse classi lavoratrici. Secondo Lea Melandri se a Marx va il merito di aver portato allo scoperto il rimosso economico – il profitto – e a Freud il rimosso della famiglia borghese – la sessualità – , al femminismo va riconosciuto di aver scoperto la politicità della vita personale, cioè di tutto ciò che è stato considerato da sempre “non politico”, la politicità del corpo e l’interezza dell’essere umano, fatto di mente e corpo, pensiero, ragione e sentimenti, coscienza e inconscio.
Oltre a ciò l’ecofemminismo ha portato alla ribalta l’intreccio tra tutti i rapporti di dominio – di genere, di razza, di classe, di specie – e la connessione tra tutte le forme di vita, aprendo la strada alla necessità di battaglie comuni che collochino in uno stesso orizzonte la tutela della natura e di tutti i viventi e la liberazione delle donne e di tutti gli esseri che la cultura occidentale, capitalistica e patriarcale, ha considerato come inferiori e oggetto di possesso e di sfruttamento, come bottino da depredare. Purtroppo gli stessi atteggiamenti e comportamenti di indifferenza, quando non di diffidenza e di ostilità in atto tra partiti da una parte e comitati di base e movimenti ad es. ambientalisti dall’altra, si ritrovano ancora, salvo eccezioni, tra il movimento delle donne e le donne dei partiti – anche di sinistra e anticapitalisti – e dei sindacati confederali. Tali atteggiamenti e comportamenti all’inizio potevano avere una loro spiegazione nella differente e separata origine storica – sempre a opera di uomini -, nella rivendicazione dell’autonomia politicoorganizzativa e nella presa di distanza dal moderatismo e dal riformismo attribuito alle forme tradizionali (partiti e sindacati confederali).
Ormai però dovrebbe diventare evidente che tali posizioni sono dannosissime per tutte le donne proprio in questa fase in cui – non certo solo in Italia, ma soprattutto in Italia – è in atto da qualche tempo un particolare attacco alla condizione delle donne e ai luoghi politicoculturali delle donne: attacco da parte delle destre radicali e degli integralismi religiosi in materia di sessualità e riproduzione, da parte del neoliberismo con i tagli progressivi allo stato sociale e con nuove forme di sfruttamento del lavoro, da parte di alcune istituzioni locali che puntano allo sgombero degli spazi in cui operano i vari collettivi, le varie anime del femminismo, a vantaggio non solo delle donne ma dell’intera società. Emblematico in questo senso l’accanimento della giunta capitolina capeggiata da Virginia Raggi contro la Casa internazionale delle Donne di Roma (ovviamente le donne, come gli uomini, non sono tutte uguali dal punto di vista delle scelte e dei comportamenti politici: se prendiamo come riferimento la coscienza di genere possiamo dire anche noi, con Simone De Beauvoir, che “femmine si nasce, donne si diventa”). A Milano la giunta Sala si rifiuta di riconoscere il valore politico dell’esistenza della Casa delle Donne e quindi di garantirne la continuità nel tempo e vuole metter a bando lo spazio di Via Marsala, in una zona di pregio dal punto di vista immobiliare, per lucrarne un affitto. A tal proposito occorre ricordare che i Comuni possono utilizzare lo strumento giuridico del comodato d’uso gratuito (fatto salvo il pagamento delle spese condominiali) per concedere spazi di loro proprietà a soggetti di utilità sociale senza scopo di lucro.
E’ venuto il momento di parlare di “libertà” e di “liberazione”. La prima libertà da garantire alle donne è la piena disponibilità del proprio corpo e la libertà di poter scegliere di non essere madri senza sentirsi incomplete e senza essere giudicate incomplete. E, sullo stesso piano, di poter essere madri tutte le volte che lo desiderano e lo vogliono senza dover sacrificare il lavoro cosiddetto “produttivo” e la partecipazione alla vita pubblica. Sappiamo che in Italia queste libertà non sono di fatto concretamente riconosciute a tutte – non sono riconosciute a molte donne delle classi lavoratrici -; ne conosciamo le varie cause (dovute anche al vivere in uno Stato di fatto non laico) e abbiamo ben presenti gli obiettivi da rivendicare, per cui non mi ci soffermo. Non a caso Marx scrisse che la libertà non è tale se non è accompagnata dalle condizioni sociali ed economiche che costituiscono la base per il suo esercizio effettivo.
E qui entra prepotentemente in campo il tema del lavoro cosiddetto “produttivo”: che cosa dovrebbe essere, con quali diritti dovrebbe essere agito e quale ruolo dovrebbero avere le donne che lavorano. Non entro nel dibattito teorico, se non per dire che il lavoro dovrebbe essere liberato dallo sfruttamento capitalistico e che dovrebbe essere espressione di sé e delle proprie inclinazioni e capacità e – nello stesso tempo – contributo al ben essere collettivo. Do per conosciute le condizioni attuali di disoccupazione, inoccupazione, precarietà, costrizione al part time, in certi settori orari scaglionati nella giornata e cambiati anche da un giorno all’altro sulla base di algoritmi, aumento progressivo e insostenibile dei ritmi nelle fabbriche, pendolarismo e inefficienza del trasporto pubblico, prevaricazione dei diritti, attacco alla salute, stress dovuto anche al sommarsi del lavoro domestico e di cura, in Italia ancora accollato quasi completamente alle donne. Non entro nel merito teorico del lavoro cosiddetto di cura, ad es. se debba essere retribuito o no. Resta il fatto che “la prosperità economica mondiale si fonda sul contributo enorme, non riconosciuto, del lavoro di cura delle donne, che accumula 16,4 miliardi di ore non retribuite. Fintanto che perdurerà, questo privilegio economico e politico consoliderà i ruoli di genere; e ogni relazione non potrà che essere contaminata da dinamiche di potere”, come ha scritto Simona Bonsignori nell’introduzione a “Lo sciopero delle donne”, manifestolibri, 2019. Sono però convinta che – anche nella attuale società capitalistica e in una situazione arretrata dal punto di vista di genere come quella italiana – il lavoro di cura potrebbe, se lo volesse un arco sufficientemente forte di soggetti politici, essere progressivamente redistribuito tra donne e uomini in modo tendenzialmente paritario. Preferisco avanzare qualche considerazione che mi pare concretamente utile sul che fare a partire da adesso, da una situazione che è tremenda soprattutto per le donne, soprattutto dopo la tragedia collettiva provocata dalla pandemia di Covid 19.
In primo luogo sul tema del lavoro cosiddetto produttivo dovrebbe essere costruita concretamente e operativamente l’individuazione congiunta di obiettivi e tappe concrete e l’unità d’azione tra le donne del sindacato, del movimento e dei partiti anticapitalisti, senza rivendicare primogeniture e campi d’azione separati. Su quattro obiettivi prioritari: 1) l’abolizione di ogni forma di lavoro precario e la garanzia di un reddito dignitoso e continuativo e di tutele previdenziali e sociali continuative anche per i lavori temporanei e stagionali; 2) la riduzione consistente e generalizzata – sia pure per tappe – dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, per aumentare l’ occupazione, per ripartire il lavoro di cura tra donne e uomini, per migliorare le condizioni di vita e di salute dentro e fuori i luoghi di lavoro e per consentire a tutte e a tutti la partecipazione politica; 3) la parità retributiva tra donne e uomini a parità di qualifica e di mansione a tutti i livelli, da quelli operai a quelli dirigenziali; 4) una rete di servizi sociali ed educativi diffusi in ogni Comune e una simile rete di servizi territoriali di prevenzione, cura e riabilitazione, come previsto dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, la 833 del 1978.
Desidero ora soffermarmi su quattro categorie di lavoratrici: le operaie, le insegnanti, le mediche e le badanti, anche per il ruolo che hanno e soprattutto per il ruolo che dovrebbero acquisire per una società a misura di donne e, quindi, di tutti.Le operaie subiscono non solo l’ oppressione di classe, ma anche quella di genere, come risulta anche dall’inchiesta sulle condizioni di lavoro e di vita delle donne metalmeccaniche condotta dalla FIOM nel 2008, di cui si riportano alcuni passaggi chiave: “ le donne continuano a vivere una condizione di maggior fatica e di maggior sfruttamento rispetto agli uomini, perché a loro continuano a essere offerti i posti di lavoro peggiori e perché su di loro pesa tutto il lavoro riproduttivo”; “le donne guadagnano sempre meno degli uomini anche a parità di livello, di anzianità lavorativa e perfino di orario di lavoro”; e ancora “per le donne i ritmi di lavoro sono più incessanti e i margini di autonomia e di controllo della prestazione minori”. Oltre a tutto, con il peggioramento delle condizioni generali di vita delle classi lavoratrici e dei rapporti di forza, con l’aumento dei ritmi e dello sfruttamento, anche diritti acquisiti, come ad es. permessi sanciti dalle leggi e prescrizioni per la sicurezza nei luoghi di lavoro, in varie fabbriche vengono percepiti come favori da ottenere dai capireparto, per cui le operaie rifuggono anche dall’impegnarsi sindacalmente per non mettersi “in cattiva luce” con capi e capetti. Potrebbe allora essere molto utile un rafforzamento della coscienza di genere e della consapevolezza dei propri diritti da ottenere mediante assemblee sindacali a ciò dedicate, tenute contemporaneamente da sindacaliste e da esponenti del movimento delle donne. E’ del tutto evidente che un rafforzamento sindacale e politico delle operaie andrebbe a vantaggio di tutti i lavoratori delle fabbriche. Altro aspetto: rivendicare e ottenere, per tutti i lavoratori, uomini e donne, i limiti di esposizione ai fattori di rischio chimici adatti al corpo femminile, che sono più bassi di quelli accettabili per il corpo maschile.
Le insegnanti – etimologicamente “coloro che lasciano un segno in” – sono la stragrande maggioranza dei lavoratori della scuola, circa 800.000 tra i vari livelli, anche se in buona parte precarie. Diventa quindi fondamentale un loro impegno sul duplice fronte di lavoratrici e di educatrici. Come lavoratrici dovrebbero assumere in prima persona la lotta per l’abolizione del precariato (politicamente inaccettabile sempre, ma soprattutto in un settore come la scuola, che dovrebbe assolvere i compiti assegnatile dalla Costituzione) e per la salute nei luoghi di lavoro, data l’insalubrità e il degrado che caratterizzano buona parte degli edifici scolastici italiani. Come educatrici, qualunque materia insegnino e trovando linguaggi e metodi didattici adeguati, dovrebbero adottare e diffondere il doppio linguaggio di genere, lasciare come segno in allievi e allieve di ogni età una consapevolezza critica nei confronti della società attuale, una coscienza di genere in merito alla storia delle donne, al ruolo delle donne nella storia, nelle scienze e nelle arti, alla costruzione di una democrazia non più dimezzata, all’obiettivo della liberazione femminile, alla lotta alle violenze, alle prevaricazioni e ai pregiudizi, in primo luogo di genere, ma non solo di genere: ancora tanto presenti nei libri di testo, nei media e nella società.
Anche le mediche hanno un bel compito che le attende: cambiare l’approccio alla salute, la ricerca, la medicina e la sanità. La prima medica di cui ci è giunto il nome fu l’egizia Merit Ptah (2.700 avanti Cristo) e la prima ginecologa della storia fu la salernitana Trotula De Ruggiero, vissuta intorno all’anno Mille, nota e ammirata in tutta l’Europa di allora. Le donne costituiscono da anni la maggioranza degli studenti e dei laureati in medicina (con un punteggio medio di laurea di 107/110) e si prevede che tra qualche anno saranno la maggioranza anche tra i medici in corsia. Sono ancora in netta minoranza nelle posizioni di responsabilità e di comando e c’è il rischio che il settore, femminilizzandosi, perda prestigio sociale e livello retributivo, come è avvenuto da sempre per la scuola, considerata la “naturale” prosecuzione dell’attività di allevamento della prole. E’ evidente che non basta la femminilizzazione di un settore di attività perché ne cambino i contenuti e le pratiche: ciò richiederà tempo e soprattutto un accurato lavoro politico da parte del sindacato, del movimento delle donne, delle donne che raggiungeranno posizioni di responsabilità nell’insegnamento universitario, nella ricerca e nella pratica medica e che dovranno fungere da pioniere. I filoni in cui operare questo cambiamento potrebbero essere: 1) l’affermazione nella ricerca medica e farmacologica e nella pratica medica della medicina di genere, ossia del riconoscimento delle differenze biologiche, psicologiche e culturali tra i due sessi; il corpo femminile è differente da quello maschile non solo dal punto di vista riproduttivo e ormonale, ma anche muscoloscheletrico e cellulare, per cui risponde in modo differente alle forme di prevenzione, alle malattie, ai farmaci, ai vaccini, alle posizioni e ai fattori di rischio ambientali, allo stress; 2) l’affermarsi di una concezione olistica, unitaria non solo del corpo, non più segmentato in organi e funzioni considerate a se stanti, in una iperspecializzazione e in una separatezza della pratica medica che arrivano all’assurdo; occorre una concezione dell’essere umano come complesso inscindibile di corpo, mente, psiche, genere, etnia, condizione socioeconomicoculturale ( ad es. condizione lavorativa e familiare). Essere umano di cui promuovere la salute a partire dalle condizioni di vita e di lavoro, dalla tutela dell’ambiente e dalla diffusione di servizi territoriali di prevenzione rigorosamente pubblici e gratuiti. Dobbiamo a una cardiologa, la italostatunitense Marianne J. Legato, l’invenzione negli anni ’90 della medicina di genere, come dobbiamo ad alcune mediche italiane, come ad es. Antonietta Cargnel paladina della lotta all’A.I.D.S., l’aver portato l’attenzione anche al contesto familiare e sociale della persona malata, portando alla creazione di appositi servizi sociali di supporto.
Le badanti sono le lavoratrici più precarie e sfruttate e con meno diritti, specie se immigrate, e sono in continua crescita: sono le più sfruttate proprio loro che, assistendo vecchi e vecchie, non solo consentono alle donne dei ceti medi di emanciparsi con il lavoro e con la vita sociale, ma anche rispondono a una necessità sociale in continua crescita, dato il progressivo aumento delle classi di età più avanzate. La proposta che avanziamo – in primo luogo alla CGIL – è di lanciare un progetto di legge di iniziativa popolare che preveda l’assunzione a tempo indeterminato delle badanti, con tutti i diritti e le prestazioni previdenziali conseguenti e con retribuzioni dignitose stabilite da un contratto nazionale di lavoro, da parte dei Comuni, in modo che le persone che necessitano delle prestazioni lavorative delle badanti per i propri cari possano rivolgersi solo a tali soggetti. In una situazione di impoverimento dei ceti medi occorre che il costo a carico dei singoli e delle singole di questo servizio, spesso e per vari aspetti alternativo al ricovero di genitori e parenti in case di riposo ghetto, sia assunto in parte dal sistema pubblico come componente dello Stato sociale.
Il cammino delle donne per la loro liberazione da patriarcato e da capitalismo intrecciati sarà lungo e irto di ostacoli: per questo dobbiamo partire dal concreto di ciò che possiamo fare da oggi per il domani , dal costruire una forza di donne che le donne di ogni singolo soggetto politico da sole non possono avere e da una concezione molto ampia di “politica”.
Se consideriamo la parola “politica” nella sua accezione originaria, dal greco “ta politikà”, tutto ciò che riguarda la polis, la città, la città Stato e quindi la vita collettiva in tutti i suoi aspetti, troviamo che questo è il senso della politica che dobbiamo diffondere come donne, portando il nostro modo di essere donne in politica a favore della collettività in ogni situazione: nel mondo del lavoro in tutte le mansioni e a tutti i livelli; nei rapporti affettivi con gli uomini e con i figli e le figlie; in tutti gli aspetti della vita pubblica e collettiva. Dopo aver scorrazzato nel tempo, nello spazio e nelle varie forme in cui le donne fanno politica occorre riprendere in sintesi il fatidico “che fare”, partendo da due constatazioni: 1) la prima è che la condizione delle donne italiane è la peggiore tra quelle dei grandi Paesi europei (basso livello occupazionale, discriminazioni retributive a parità di qualifica e mansione, bassissima dotazione di servizi socioeducativi, impossibilità per molte di essere contemporaneamente lavoratrici e madri – indice di subalternità – e conseguentemente bassissima natalità, che è un indicatore di disagio socioeconomico e di arretratezza per l’intero Paese); e la seconda è che le divisioni tra soggetti politici oggettivamente anticapitalisti non fanno che favorire capitalismo e patriarcato, i potentati economico/finanziari, militari, religiosi e le persone che li servono nelle istituzioni ai vari livelli.
Come donne del Partito Comunista Italiano proponiamo quindi di tessere, costruire – su obiettivi condivisi e sempre più avanzati – relazioni via via più forti ed estese tra donne delle varie forme della politica in tutte le modalità possibili e in tutti gli ambiti territoriali possibili: soprattutto tra donne di soggetti a valenza nazionale come i partiti anticapitalisti, la CGIL , Non Una Di Meno e l’Unione Donne in Italia, ma anche in ogni realtà locale con le articolazioni dei soggetti nazionali e con i soggetti a base locale; utilizzando tutte le modalità di lotta e di iniziativa a disposizione, dalle manifestazioni nelle vie e nelle piazze, alle raccolte di firme, ai progetti di legge di iniziativa popolare, alle varie forme di sciopero e anche al votare donne, per far arrivare nelle istituzioni a tutti i livelli sempre più donne dotate di coscienza di genere e capaci di interagire con le donne di ogni età, con le donne dei movimenti, dei comitati e delle associazioni, con le lavoratrici, con le studenti, con le pensionate; queste ultime devono spesso supportare nella cura di bambini/e e ragazzi/e le generazioni di mezzo lasciate sole dalla carenza di servizi socioeducativi, ma devono cercare di dedicare tempo ed esperienza alla lotta collettiva delle donne. Per che fare? Per liberare il genere femminile dal patriarcato e l’intera umanità dal capitalismo e dalla guerra, per utilizzare l’attuale pandemia, e il rischio concreto che altre seguano, come occasione imperdibile per diffondere la consapevolezza che l’umanità è parte di una natura attiva, e quindi smettere di distruggere gli ecosistemi, smettere di sfruttare fino allo sfinimento gli esseri umani, smettere di sfruttare in allevamenti intensivi gli animali cosiddetti domestici e smettere di distruggere l’habitat di quelli ancora selvatici.
Anche gli uomini di sinistra ovunque collocati dovrebbero iniziare a costruire – ovunque vi siano obiettivi condivisi – queste relazioni, queste alleanze, indispensabili per lottare in modo efficace contro il sistema capitalistico; ma cominciamo da noi, da noi donne, proprio in quanto il capitalismo è un sistema maschile.
Concludo questa relazione con tre slogan provenienti da vari punti del globo: il primo era stato la parola d’ordine del primo convegno femminista australiano negli anni ’70: ”Donne unitevi: non avete nient’altro da perdere se non le vostre catene”; il secondo è dovuto a Michelle Bachelet, per vari anni “presidenta” del Cile: “Quando una donna fa politica cambia la donna, ma, quando tante donne fanno politica, cambia la politica”; e il terzo alla Casa Internazionale delle Donne di Roma: “Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite. Noi siamo la cura”.
Sono le donne che generano gli esseri umani, sono le donne che nutrono il mondo, sono le donne che devono generalizzare la consapevolezza che la nostra salute è connessa a quella di tutti gli esseri viventi e quindi sono le donne che devono cambiare la politica (obiettivi, priorità, pratiche) e salvare la vita sul pianeta.