Unità comunista: ma stabilire con rigore i confini entro i quali provare l’impresa
di Nino Frosini del PC di Siena
Attualmente la questione politica centrale nel mondo è rappresentata dal conflitto fra le due principali tendenze del capitalismo: mondialismo cosmopolita e sovranismo. Fino a una trentina di anni fa non era così e la questione comunista, seppure fra contraddizioni, limiti e stagnazioni, era ancora centrale nelle vicende dell’umanità. Una centralità politica e sociale capace di attraversare nazioni e continenti con livelli di sviluppo molto diversi. Dall’Africa all’Asia. Dal mondo arabo a quello occidentale passando per l’America Latina. Ovunque i comunisti e le forze a questi affini giocavano un ruolo fondamentale. Le vittorie erano sempre figlie di lotte durissime in occidente e di scontri armati in quasi tutto il resto del mondo. Le sconfitte non avvenivano mai senza essere precedute da battaglie senza quartiere.
Il conflitto generava conquiste o arretramenti ma mai la resa.
Oggi le cose sono cambiate. La scomparsa dell’Urss ha rappresentato uno snodo dal quale sono scaturite dinamiche capaci, nei paesi occidentali, di destrutturare e poi ricomporre l’idea stessa di progresso sociale. Ed è sotto i nostri occhi la conseguente ridefinizione ideologica e, quindi, del ruolo sociale delle stesse organizzazioni socialdemocratiche, progressiste e liberali le quali hanno assunto l’ideologia capitalista come unico paradigma entro il quale far vivere ogni dialettica.
Ciò ha favorito non poco la vittoria delle classi dominanti e, più e meglio di quanto abbia saputo fare la destra classica, ha contribuito a solidificare socialmente la perniciosa astrazione sulla fine della lotta di classe. Lavorando gomito a gomito con borghesi e padroni per dare credibilità alla menzogna di una società dove, alla fin fine, l’unico conflitto sia quello generazionale e la “vera” battaglia sia espressione di idealità distinte che scaturiscono non tanto dalla coscienza determinata dal ruolo sociale ma dall’approccio culturale.
Per cui, a titolo di esempio, i poveri che nei quartieri popolari e nelle periferie si trovano in concorrenza con altri poveri, magari di pelle e nazionalità diversa, per accedere a quel che resta dello stato sociale: sussidi/lavoro; case; assistenza sanitaria, ecc., diventano feroci razzisti e non dei disperati che, privati di autonomia economica ed esistenziale (lavoro sempre più precario) e derubati di ogni reale possibilità di evoluzione culturale (cultura dominante basata sui social e su una ossessiva mercificazione mediatica con relativa e spaventosa regressione del linguaggio stesso), cercano di restare a galla affondando altri.
In questo contesto la debolezza politica e organizzativa dei comunisti contribuisce all’aggravarsi di una situazione socialmente suscettibile di sbocchi non facilmente prevedibili e difficilmente ascrivibili a qualsivoglia concetto di progresso. D’altra parte i comunisti rappresentano oggi quanto è rimasto sul “campo” dopo la sconfitta di ieri. Una sconfitta pesante in grado di schiantarci e lacerante al punto da dividerci ancora atomizzando la nostra presenza in schieramenti e piccoli partiti fra loro spesso molto conflittuali. Certo, resistere è complicato, ma ancora più complesso è organizzare una presenza dei comunisti utile a riproporre in ambito politico e sociale “la questione comunista” con lo scopo di farla tornare importante nelle vicende italiane.
Ragionare sui motivi della sconfitta è snodo cruciale. Capire l’essenza di questi motivi semplicemente fondamentale. Arricchirne la problematicità con orpelli d’ogni natura è prassi nella quale siamo fin troppo bravi ed esperti e forse sarebbe tempo, senza indebolire l’impegno a migliorare la diagnosi, cominciare a riflettere sulle cure possibili fintanto che qualche importante anelito vitale è ancora presente. Pertanto, al presente stato delle cose, penso non sia affatto sbagliato coniugare il futuro della “questione comunista” con quello dell’unità dei comunisti. Anzi, personalmente, ritengo impossibile perseguire l’una senza il corredo dell’altra.
D’altronde, evocare il bisogno di avere i comunisti uniti per riaprire la lotta per l’egemonia a sinistra, egemonia ora esercitata da un conglomerato di “liberal/liberisti” organici agli interessi del capitale cosmopolita con annessi satelliti “radical chic”, non significa in un istante passare dal desiderio alla realtà. Dividersi è questione per solito breve ma riunirsi… beh! Per ora non è mai successo.
Su queste difficoltà pesano molte cose. Pesa la sconfitta epocale dell’URSS. Pesa la degenerazione e poi lo scioglimento del PCI. Pesano i mostruosi errori nella costruzione di Rifondazione. Pesano le semplificazioni propagandistiche che, seppur necessarie in una fase in cui organizzare la sopravvivenza è quanto al momento ti puoi permettere, nel medio periodo possono invece trasformarsi in un vincolo esiziale. Pesa il fatto che nel mondo non c’è alcun fermento di apprezzabile rinnovamento teorico e se andiamo a ben vedere l’ultima riflessione di grande spessore sul tema di una prassi politica anticapitalista di ampio respiro è il saggio di Palmiro Togliatti “Capitalismo e Riforme di Struttura” pubblicato su Rinascita poco prima della sua morte.
Pertanto, siamo destinati a muoverci su un sentiero, quello dell’unità dei comunisti, mai realmente percorso prima e su un terreno ingombrato dalle macerie delle ultime sconfitte dove sono cresciute a dismisura cattive piante di ogni tipo a cominciare dagli esasperanti personalismi coltivati con l’acredine di chi oltre al divorzio vorrebbe anche il sangue dell’altro.
Quindi, da dove cominciare? Intanto dall’ottimismo della volontà perché senza volere non può esserci potere. Poi, però, stabilire con rigore i confini ideologici entro i quali provare l’impresa. Fra l’altro l’assenza di questo principio di selezione insieme alla convinzione di poter “governare” le dinamiche dell’eclettismo ideologico, culturale e politico furono causa primaria della rovina di Rifondazione.
Quindi, confini ideologici che a mio parere sono assai facili da individuare e si possono così riassumere: per comunismo e comunisti si intende tutto ciò e quanti così definendosi hanno prodotto storia.
Stalin e il PCUS ma anche il PCI di Berlinguer. Perché la storia nostra, quella che oggettivamente si è mossa dentro il solco della terza internazionale – quindi ben diversamente da quanto pensano gli eclettici e scomposti maggiordomi del pensiero dominante – non è una margherita da sfogliare. Buttando quanto non ci va e assumendo quel che garba. La nostra storia è una storia di vittorie e sconfitte. La nostra storia è una storia di grandezza e di miserie da Stalin a Krusciov, da Gramsci a Togliatti fino a Berlinguer e Occhetto. Ma è storia. Con il rispetto del caso non si può certo dire la stessa cosa di chi ha prodotto modesta cronaca in qualche caso con umana dignità, pensiamo ad esempio a un Mario Capanna, oppure pessima cronaca con umano squallore come Bertinotti.
Assunto questo paradigma come strumento di selezione non sarà difficile, nello scarno panorama delle organizzazioni dove si fa uso identitario del termine comunista, individuare quali saranno i compagni di viaggio e di avventura. Certo, laicamente si dovranno buttare alle ortiche quelle zavorre rappresentate dalle personali esperienze di ognuno. Si dovranno espungere senza indulgenze personalismi e ricordi (spesso prodotti da stati d’animo legati al nostro vissuto che può certo esser genuino ma ben difficilmente oggettivo) legati a storie ormai lontane.
Così lontane che ad esempio nel mio partito, il P.C., moltissimi compagni nel 1998 neanche erano nati. Così distanti dal presente che le esperienze politiche più fallimentari dei Comunisti Italiani come l’Arcobaleno o la “lista Ingroia” sono avvenute quando moltissimi nostri iscritti viaggiavano fra la quinta elementare e le medie. Perciò diviene, oltreché intrinsecamente sbagliato, surreale l’ostracismo “antirizziano” di taluni maestri del “fare o non fare” deteriorati dal tempo, dal vissuto e dall’amore per il proprio ombelico. Surreale, per molti materialmente incomprensibile, e per il sottoscritto anche dannoso.
Quindi, stabiliti i paletti bisogna cominciare ad “allenarsi” per non frantumarli e nel contempo far crescere dentro questi confini rispetto, tolleranza e determinazione ad andare avanti considerando l’unità non un fine ma, né più né meno come il partito, come uno strumento con il quale tenere aperta la questione comunista e insieme ad essa la questione della rappresentanza di quegli interessi di classe – della nostra classe quella composta da salariati e piccole partite iva economicamente e socialmente ancora più deboli dei primi – che senza l’influenza e l’azione dei comunisti sono relegati all’estrema periferia del dibattito e delle attuali scelte politico-sociali.