Il 21 gennaio 2011 Alexander Höbel scriveva un articolo per l’Ernesto intitolato “A novant’anni dalla nascita del Pci”. Cambiando il titolo e e datandolo oggi, mi pare assolutamente attuale e da riproporre.
Novant’anni sono passati da quando, il 21 gennaio 1921, a Livorno, dalla scissione del Partito socialista nasceva il Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista. In questi decenni, in modo ricorrente si è cercato di mettere in discussione quella scelta, e con essa l’intera storia del PCI; un’operazione che dal 1990 in poi è diventata più insistente, più aggressiva, prendendo le forme dell’assioma che non ammette repliche. La damnatio memoriae a cui è stato condannato il PCI – anche da molti dei suoi ex dirigenti e intellettuali – è lo sfondo su cui si è articolata questa offensiva. Oggi, dopo vent’anni di ubriacatura neoliberista e di apologie del capitalismo, dinanzi alla crisi strutturale gravissima che torna a rivelare le contraddizioni di fondo del sistema, qualche dubbio torna a serpeggiare: forse quel PCI non era poi così male, forse nell’opera di distruzione del passato si è un tantino esagerato…
Proviamo allora ad accennare un piccolo gioco di storia “controfattuale”. Che cosa sarebbe stata la storia del nostro paese senza il Partito comunista? Ciò a cui si potrebbe aggiungere un’altra domanda: che cosa sarebbe stata se quel partito fosse esistito già nel 1919-20, e accanto all’esitante Partito socialista (che tende a ridurre le grandi lotte del Biennio rosso a una questione sindacale) vi fosse stata una forza rivoluzionaria, in grado di porsi alla testa di quelle lotte, consentendo magari alle avanguardie torinesi di rompere l’isolamento con un’offensiva diffusa nel Paese? Non a caso, è proprio l’insegnamento tratto da quei fatti che spinge Gramsci e gli ordinovisti torinesi ad affiancarsi agli astensionisti bordighiani nella conclusione che il PSI sia irrecuperabile e occorra costituire un Partito comunista.
Ma torniamo alla prima ipotesi – una storia d’Italia senza il PCI – e, parallelamente, al ruolo effettivamente giocato dal PCI nella storia. Nell’estate del 1921, mentre la violenza squadrista impazza da tempo, il Partito socialista propone e sigla coi fascisti un patetico “patto di pacificazione”, che ovviamente sarà stracciato dalle camicie nere quasi subito, ma che contribuisce a disarmare il proletariato, così come lo disarma il rifiuto della CGdL di indire un serio sciopero generale fino al ristabilimento dell’agibilità politica delle organizzazioni operaie. Sono le prove generali della resa incondizionata. I comunisti tentano di resistere, organizzano squadre di difesa proletaria (in Piemonte le coordina Luigi Longo), forse non colgono appieno le possibilità offerte dal movimento degli Arditi del popolo, ma pure affiancano a essi la propria iniziativa. E tuttavia, non trovando sponde quella azione nel resto del movimento operaio e delle forze democratiche, il fascismo giunge al potere, col sostegno attivo delle oggi tanto celebrate classi dirigenti liberali (e cattoliche). La coraggiosa presa di posizione di Matteotti, che gli costa la vita, giunge quando è ormai troppo tardi e non riesce a mutare il quadro. L’ennesimo appello di Gramsci allo sciopero generale, dopo la scoperta del corpo del leader socialista, cade nel vuoto. Il fascismo si trasforma apertamente in regime. I partiti vengono soppressi e di fatto cessano di esistere, la maggior parte dei dirigenti e dei quadri va in esilio; la CGdL – per decisione del gruppo dirigente riformista – decreta il suo auto-scioglimento, e mentre Buozzi fonda l’Ufficio di Parigi altri dirigenti come D’Aragona e Rigola pensano di trovare un nuovo ruolo nelle pieghe del corporativismo fascista. Eccettuati alcuni gruppi di anarchici, repubblicani, socialisti, i comunisti sono l’unica forza organizzata che rifiutano lo smantellamento dell’organizzazione operaia: tengono in vita il Partito, attraverso cellule di officina, di strada, di villaggio, gruppi femminili e gruppi giovanili, Soccorso Rosso ecc.; ricostituiscono la CGdL, anch’essa riorganizzata attraverso cellule clandestine attive in molte fabbriche; e poi, con la direttiva entrista che Togliatti lancia fin dal 1928, intuiscono che la lotta va portata avanti anche nei sindacati fascisti, poiché l’importante è non perdere i contatti con le masse lavoratrici e perché – come Togliatti argomenterà nelle Lezioni sul fascismo – l’irriducibilità delle contraddizioni di classe non tarderà ad aprire conflitti laceranti tra il regime e le sue basi di massa. Di fatto, senza la presenza dei comunisti, l’esperimento totalitario del fascismo e la costruzione del regime reazionario di massa non avrebbero avuto nessun efficace anticorpo.
Intanto l’elaborazione del Partito va avanti, con le Tesi di Lione si riflette sui caratteri della società italiana e sulla possibili “forze motrici” della rivoluzione nel nostro paese; con la straordinaria riflessione di Gramsci in carcere sulla strategia dell’egemonia e le vie della “rivoluzione in Occidente”, sulla necessità che il proletariato diventi classe dirigente nella società per porre le basi della sua trasformazione in classe dominante a livello dello Stato e del potere politico. Sul piano organizzativo, la svolta del 1929, per la quale si battono i giovani Longo e Secchia, riporta la gran parte dell’attività del Partito in Italia anche a livello di gruppi dirigenti, il Centro interno si affianca al Centro estero. È una scelta che avrà i suoi costi in termini umani, di militanti caduti, ma che assieme alla capacità di fare politica negli organismi di massa del regime, partendo dai bisogni materiali dei lavoratori per poi portare la lotta sul piano politico, consente non solo ai comunisti di rimanere ancorati al proletariato, ma anche di far maturare tra i lavoratori e nella società quegli anticorpi a cui si accennava e che emergeranno dopo il 25 luglio 1943, senza i quali la Resistenza sarebbe difficilmente spiegabile, così come l’egemonia comunista al suo interno. Senza quella presenza, senza quell’instancabile lavorio fatto nelle condizioni più difficili, quando tutto sembrava perduto, alla fine del fascismo avremmo avuto probabilmente un 25 luglio senza un 25 aprile, un colpo di Stato di palazzo e una crisi tutta interna alle classi dirigenti, a cui le masse popolari sarebbero rimaste estranee.
E invece le masse, grazie al PCI e alle altre forze del movimento operaio e della sinistra che intanto riprendono il proprio posto, si fanno protagoniste di quello straordinario fatto storico che è la lotta di liberazione; con la svolta di Salerno il proletariato e il suo principale partito si pongono apertamente come nuova classe dirigente del Paese, forti dell’insegnamento gramsciano e dell’intuizione togliattiana del partito nuovo. Sono la guerra fredda, l’anticomunismo costruito ad arte, la forza profonda delle classi dominanti, sostenute da uno schieramento che va dalla Chiesa cattolica agli Stati Uniti, che bloccano quel cammino. E tuttavia, nonostante la drammatica sconfitta del 1948, pazientemente, grazie al lavoro tenace di centinaia di migliaia di uomini e donne, e grazie alla direzione di uomini quali Togliatti, Longo e Secchia, si costruisce il partito, lo si radica nei luoghi di lavoro e nei territori, raggiungendo i due milioni di iscritti e una presenza capillare in tutto il Paese. È il capolavoro del partito di massa – di massa e di quadri –, che accanto alle potenzialità offerte dalla Costituzione rende possibile la strategia della democrazia progressiva, la costruzione di una democrazia sociale e di un’economia mista che possano aprire le porte alla trasformazione socialista. In questo quadro – e per molti versi grazie alla presenza del PCI – l’Italia diventa un laboratorio, nel quale la forza dei partiti di massa, la centralità di un Parlamento eletto col sistema proporzionale e vero specchio del Paese, un crescente ruolo dello Stato nell’economia e un alto grado di partecipazione democratica pongono le basi di sviluppi che soprattutto la guerra fredda, implicando il blocco del sistema politico, blocca.
La società italiana cresce e si trasforma, e il sistema politico non ne tiene il passo: la formula del centro-sinistra, nata per colmare il gap, segnata com’è dalla netta discriminazione anticomunista e dal tentativo di isolare il PCI, finisce per riproporre il problema in termini più accentuati, ciò che produce l’esplosione del 1968-69. E tuttavia anche in quegli anni, di immobilismo politico e “stabilità infeconda”, il PCI riesce a svolgere un ruolo di governo pur stando all’opposizione. Lungi dall’aver ostacolato le riforme come si è raccontato in questi anni, i comunisti non solo le rivendicano, premendo sul governo perché attui il suo programma, ma portano avanti un lavoro di elaborazione, dibattito e iniziativa politica su varie riforme (dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale all’equo canone, dalla “giusta causa” nei licenziamenti allo Statuto dei lavoratori), insistendo sulla necessità di garantire ai lavoratori e alle loro rappresentanze un ruolo di controllo e gestione nei vari enti da riformare o da istituire – istituti previdenziali, collocamento, unità sanitarie locali, RAI-TV ecc. È una linea che si affianca a quella del decentramento democratico e allo sviluppo delle autonomie locali (dalle Regioni ai consigli di quartiere), in una strategia che si potrebbe definire di democratizzazione avanzata dello Stato e della società, e che ha nella programmazione democratica dell’economia la sua proposta generale relativa allo sviluppo del Paese. È una battaglia che il PCI, ancora una volta isolato da varie altre forze della sinistra e del movimento operaio (ma non dagli ex azionisti che fanno capo a Parri, né dai socialisti di sinistra del PSIUP, né da molti cattolici del dissenso), non riesce a vincere, e tuttavia molte delle riforme varate in quegli anni e poi durante la solidarietà nazionale trovano la loro incubazione anche in quel lavoro politico fatto di elaborazione organizzata, mobilitazione di massa, attenta iniziativa parlamentare, che il PCI seppe sviluppare in quella fase.
La forza dei comunisti e del movimento operaio spaventò la grande borghesia, spaventò gli Stati Uniti e le forze più regressive della società e della politica italiana. La strategia della tensione mise in campo una serie di azioni, strutture e operazioni, tra cui le terribili stragi degli anni 1969-80, di una forza distruttiva tale che solo la forza conquistata nel Paese dal movimento dei lavoratori e dal PCI può spiegare. L’Italia degli anni ’70, della grandi avanzate sul piano sociale, civile e politico, non si comprende se si omette il ruolo del Partito comunista, come pure da più parti si tenta di fare. Semplicemente, senza il PCI non ci sarebbe stata quella “anomalia italiana” che ha tanto preoccupato il grande capitale, il quale ha lavorato a lungo per riportare il Paese nella “normalità”. Così come non si comprende, se si sottovaluta o si cancella questo fattore, perché la crisi della società italiana e del sistema politico procedano di pari passo con la crisi della prospettiva strategica del PCI, che si apre – io credo – a seguito del bilancio negativo dell’esperienza della solidarietà nazionale.
Proprio nel momento in cui la lunga accumulazione di forze e di consenso, il lungo cammino dell’egemonia avviato decenni prima, raggiunge il suo culmine, il mancato sblocco del quadro politico apre una crisi di fondo del Partito. Inizia allora una fase di disorientamento, a cui, dopo la morte di Berlinguer, si risponde col nuovismo, i riformismi più o meno “forti”, la mutazione genetica e poi – dopo l’89 – la liquidazione del PCI: un esito assolutamente non necessario, una scelta sciagurata che lascia il movimento dei lavoratori privo del suo maggiore punto di riferimento e lo rende sguarnito e fragile proprio nel momento in cui, con Tangentopoli, si manifestano tutti i guasti sistemici che i comunisti avevano a lungo denunciato, e che si sarebbero potuti affrontare solo rilanciando le riforme strutturali, il tema del controllo democratico e della finalizzazione sociale della spesa pubblica, della partecipazione dei lavoratori organizzati alla macchina dello Stato. E invece inizia la triste stagione delle riforme elettorali e istituzionali, che portano il Paese sempre più lontano dallo spirito (e anche dalla lettera) della Costituzione.
Che cosa sarebbe stata l’Italia senza il PCI lo vediamo oggi che il PCI non c’è più, nel momento in cui gli assi su cui si era costruito quel laboratorio di democrazia sociale che è stata l’Italia repubblicana sono stati abilmente distrutti: i partiti di massa, un sindacato conflittuale, la centralità del Parlamento, il sistema proporzionale, un modello di democrazia partecipata e diffusa. Il disegno della P2, la cui realizzazione fu avviata da Craxi e dai suoi alleati del CAF (Andreotti e Forlani), è stata poi portata avanti da Berlusconi e da ampi settori del grande capitale, peraltro non privi di agganci anche nello schieramento di centro-sinistra.
E tuttavia, proprio il modello neocorporativo che avanza, in cui si tende a cancellare il conflitto o quanto meno a negargli rappresentanza, e dall’altra parte le condizioni sempre più dure di lavoratori e precari dinanzi alla crisi economica, tornano a porre il tema del Partito comunista, della ricostruzione di un soggetto politico che, a partire dalle forze organizzate esistenti che si richiamano a quella storia e a quella cultura, si faccia carico, nelle condizioni difficilissime di oggi ma con la forza che deriva da quell’immenso patrimonio, di tentare un nuovo inizio. (www.lernesto.it 21 gennaio 2011)a
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